lunedì 21 ottobre 2024

"Il ritratto di Elsa Greer", di Agatha Christie

In questa storia, a richiedere i servigi dell'infallibile Hercule Poirot, è la signorina Mary Lemarchant.

Si tratta di un'indagine a ritroso che viene affidata all'investigatore belga: Carolina Crale, la mamma di Mary, ben sedici anni prima, ha ucciso suo padre, il celebre pittore Amyas.

Questo almeno raccontano gli atti processuali. Eppure c'è la lettera che la presunta assassina avrebbe scritto a sua figlia poco prima della condanna, in cui si proclama innocente. E ciò nonostante il suo atteggiamento processuale sia stato a dir poco remissivo e abbia dato la netta impressione di aver accettato la condanna quasi con sollievo.

Cosa si cela dietro questa faccenda? Pane per i denti di Poirot.

Nella sua mente affiora così una filastrocca; e più cerca di cancellarla, più la stessa gli si imprime con pervicacia: "Questo porcellino andava al mercato/questo porcellino se ne stava a casa/Questo porcellino mangiava l'arrosto/questo porcellino gridava ahi...ahi...ahi..."

Adesso occorre incontrare i protagonisti di quello che ufficialmente è il più classico dei triangoli amorosi finito male: Amyas, la bellissima e troppo giovane modella Elsa Greer che posa per il canto del cigno del pittore, e sua moglie. E come nei più suggestivi drammi d'amore, spunta il veleno, nella fattispecie la coniina, pronto a districare i nodi che la volontà umana non sa sciogliere.

Questo giallo, considerato dalla critica una delle migliori storie di Agatha Christie, si basa su un duplice piano d'indagine: quello classico delle fonti dirette e l'altro delle memorie che i personaggi principali scrivono per Poirot, allo scopo di ricostruire i momenti che hanno preceduto e seguito i tragici fatti avvenuti ad Alderbury.

Introspezione psicologica, attenzione maniacale anche al particolare apparentemente più futile e colpo di scena per il Lettore: quest'ultimo, infatti, fino a poche pagine prima della conclusione, crede di aver capito chi sia l'assassino salvo poi ricredersi e convergere verso l'esito che appariva troppo scontato in partenza.

"Due mesi dopo", di Agatha Christie

Il nostro investigatore con la testa a forma di uovo, i baffi con le due volute perfettamente identiche e le sue ipertrofiche celluline grigie, si vede recapitare una lettera: una tale signorina Emily Arundell gli comunica di temere per la sua vita.

E fin qui, nulla di particolarmente strano, se non fosse che la lettera arriva a destinazione due mesi dopo essere stata scritta. Caso vuole, però, che in questo lasso di tempo la signorina Arundell sia effettivamente deceduta.

Ed è proprio questo che gli viene detto quando, dopo essersi recato assieme al fidato capitano Hastings a Littegreen House, Hercule Poirot apprende un'altra notizia spiazzante: tutti i beni della ricca signorina, infatti, sono stati lasciati alla dama di compagnia Wilhelmina Lawson, anzichè ai nipoti. E ciò nonostante la convinzione pressochè unanime che, pur avendo una scarsa considerazione del suo sangue, la signorina Arundell mai avrebbe disonorato in tal modo la sua famiglia.

C'è qualcosa che non quadra.

Poirot, allora, esamina, com'è sua abitudine, il campionario dei nipoti che si sono visti soffiare la cospicua eredità: lo scioperato e truffaldino Charles e la fascinosa Theresa; l'impacciata Bella, sottomessa al marito, un greco che svolge la professione di medico (Jacob Tanios); l'altro medico, nipote acquisito (Rex Donaldson), che è il fidanzato talentuoso di Theresa.

Certo, non manca l'interesse per la dama di compagnia, una donna suggestionabile e impacciata.

Poi ci sono gli eventi: poco prima della sua morte, la signorina Arundell è caduta giù a causa di una pallina lasciata dal cane Bob maldestramente sulle scale.

Caduta accidentale? Per tutti è così, ma solo Poirot, grazie al suo acutissimo spirito d'osservazione, nota che c'è un chiodo conficcato nello zoccolo di legno, verniciato di fresco, di fronte alla balaustra in cima alle scale.

Tra sedute spiritiche di dubbia verosimiglianza e testamenti a scopo intimidatorio, l'infallibile Poirot saprà fare giustizia anche su un caso che tutti avevano rubricato come morte naturale e, per ciò che attiene alla disposizione testamentaria, come l'ultima stravaganza di una vecchia zitella certamente sui generis.

Arditi collegamenti neuronali, osservazione ossessiva anche del futile, scandaglio profondissimo delle miserie umane, l'Hercule Poirot di Agatha Christie è sempre una goduria per il Lettore.

Storia d'Italia, Montanelli-Gervaso, vol.19 "Il crepuscolo del Seicento"

 Questo volume della Storia d'Italia si apre con la rassegna delle varie Accademie che, in assenza di un "pubblico" (la pochissima scolarizzazione è appannaggio della Chiesa che rifiuta la libertà di discussione e di critica), svolgono il ruolo di "centrali" per stabilire e mantenere contatti permanenti tra gli uomini di scienza. Ed ecco fiorire l'Accademia dei Lincei del nobile romano Federico Cesi, così chiamata perchè i suoi soci si piccavano di osservare la natura con lo sguardo acuto della lince. C'era poi l'Accademia degli Umidi del farmacista Anton Francesco Grazzini nata per difendere il volgare dal bucato di latino in cui alcuni volevano immergerla. Più tardi, quest'ultima assunse la denominazione di Accademia della Crusca con il frullone come simbolo, una sorta di setaccio, e per motto "Il più bel fiore ne colsi". Infine, tra le altre, l'Accademia del Cimento, ad opera del principe Leopoldo, che aveva come insegna un fornello acceso e il motto "Provando e riprovando".

Il secondo capitolo è dedicato alla figura del papà de l'Adone, il cavalier Giambattista Marino. Dalla sua gioventù spensierata e libertina in quel di Napoli, si passa, sul finire della vita, al suo "Se il libro merita il fuoco che s'abbruci" pronunciato al cospetto del giudizio di immoralità dell'Inquisizione. Gli scrittori considerano il cavalier Marino il perfetto simbolo del Seicento: gonfio, ampolloso, prezioso e pieno di vuoto. E forse per questo è considerato il genio del suo secolo.

Si passa poi a Bernini e al barocco. Per quanto riguarda quest'ultimo, oltre a uno stile architettonico, il barocco rappresenta un fenomeno culturale e di costume. Sia che la sua etimologia derivi dal portoghese "barroco" (perle non sferiche irregolari e bizzarre) sia da "baroco" (modo di ragionare pedantesco e artificioso dei filosofi aristotelici), esso costituisce il tipico prodotto della Controriforma. Nei Paesi protestanti infatti, si diffonde solo per contagio. Con riferimento al Bernini, gli autori affermano che Bernini non diventò Michelangelo perchè neanche Michelangelo, se fosse nato allora, sarebbe diventato Michelangelo. Ciò a significare la pochezza del tempo in cui gli toccò di vivere. Dopo un breve resoconto sulle opere e sulla vita del Bernini, ci si concentra sul Borromini, al secolo Francesco Castelli, passato alla storia come il suo rivale nonostante inizialmente lavorò proprio alle dipendenze del Bernini. Rimane impressa la fine tragica dell'artista (trapassatosi da parte a parte con la spada, probabilmente in preda a una crisi depressiva).

Il quarto capitolo è imperniato sulla figura della regina Cristina di Svezia che non amando la sua patria, la Svezia per l'appunto, voleva trasformarla in un'altra Italia, tant'è che venne ad accasarsi a Roma. Allergica all'amplesso in cui vedeva una sorta di sottomissione che la sua indole non poteva sopportare (probabilmente era lesbica), attirò alcuni importanti filosofi alla sua Corte come Grozio e Cartesio.

Ci si occupa poi di un genere in cui l'Italia raggiunse l'incontrastata eccellenza: il melodramma, il cui cigno fu indiscutibilmente Claudio Monteverdi, diventato in seguito maestro della cappella ducale di San Marco. È un mondo rutilante in cui folleggiano castrati e tifosi da stadio perchè l'Italia non "faceva" il melodramma, lo era.

Le vicende italiane però, non possono essere comprese se non s'immergono nella storia europea. La seconda parte del libro, quindi, si apre con gli anni della decadenza spagnola, anche per la cacciata insensata e controproducente delle uniche minoranze produttive: gli ebrei e i moriscos. È la Francia che adesso ha un ruolo egemone in Europa, con la designazione a suo successore da parte del Cardinale di Richelieu, dell'italiano Giulio Mazarino: i due uomini si somigliavano. Richelieu era d'acciaio, Mazarino di gomma. Quest'ultimo diventò il padrone della Francia con l'avallo di un giovanissimo Luigi XIV. E il suo calcolo lo spinse a una scandalosa alleanza con l'Inghilterra di Cromwell, il dittatore calvinista che aveva fatto decapitare il suo re.

«Maestà vi devo tutto, ma pago il mio debito dandovi Colbert» queste pare fossero le ultime parole di Mazarino al Re Sole. Si rivelarono ben presto profetiche: Colbert infatti ha dato alla Francia il suo definitivo assetto di Stato accentrato in campo politico, economico e amministrativo.

Si passa poi all'Inghilterra in cui, un piccolo proprietario terriero allevato nella religione calvinista, il già citato Oliver Cromwell, si venne ben presto a scontrare con il re Carlo I. Alla testa dei suoi Ironsides annientò le truppe del re che non aveva voluto firmare, in cambio della concessione di fondi per la guerra contro la Spagna, la "petizione dei diritti" con cui si riconosceva in esclusiva alla Camera il diritto d'imporre tasse e tributi.

Dopo questa doverosa parentesi europea, si ritorna nel Bel Paese, e precisamente nel Piemonte, l'unico stato italiano ancora vivo anche nella seconda metà del Seicento. Si passa dalle manie di grandezza di Carlo Emanuele II, al malaticcio Vittorio Amedeo, almeno fino a quando non gli si diedero da mangiare certi bastoncini di farina chiamati grissini che lo fecero miracolosamente rifiorire. I due scrittori aprono poi un riflessione sui valdesi di Pietro Valdo (novello san Francesco che, da ricco mercante di Lione, si spogliò di tutti i suoi beni) e sui suoi seguaci, i cc.dd. "Poverelli di Lione". Col loro messaggio rivoluzionario, si insediarono per la maggior parte lungo il versante orientale delle Alpi Cozie e vennero ben presto, dopo la revoca dell'editto di Nantes, rimessi al bando.

L'ottavo capitolo è dedicato alla Serenissima che conserva qualche anelito di vita nell'asfittico panorama italiano di fine '600. La figura preminente è quella di Francesco Morosini, capo della flotta della Signoria e uno dei più grandi ammiragli di tutti i tempi. A tal punto che fu eletto Doge quasi a furor di popolo.

Non potevano mancare all'elenco il Granducato di Toscana con lo sfortunato matrimonio tra Cosimo e Margherita Luisa d'Orleans e lo Stato pontificio con il duro colpo inferto al prestigio temporale della Chiesa dalla pace di Westfalia. Ormai lo Stato pontificio non ha alcuna voce in capitolo al di fuori dei suoi confini.

Si chiude in bellezza con il Viceregno. Napoli, a quei tempi, era la città più popolosa d'Italia. I nove decimi dei suoi abitanti erano lazzari. E tra questi spicca la figura del pescivendolo Tommaso Aniello (Masaniello) che nel 1647, a causa del ripristino della gabella sulla frutta imposta dal Vicerè duca d'Arcos, alimentò la sua fama di rivoluzionario. Fu capopopolo anche con l'aiuto dell'equivoco avvocato Genoino che, a quanto pare, arrivò ben presto a manipolarlo per i suoi fini. Masaniello, alla stregua di Cola di Rienzo, dopo un inizio promettente, cominciò ad assumere atteggiamenti stravaganti che lo resero inviso allo stesso popolo di cui si faceva paladino. I napoletani infatti, ben presto non ne poterono più delle sue stravaganze, e addirittura lo decollarono. Poi, dopo avergli ricucito la testa sul busto,lo lavarono, lo vestirono, gli misero al fianco la spada e il bastone di comando, tributandogli solenni esequie, cui parteciparono quarantamila persone.

Il capitolo sul Viceregno si chiude con la figura di un altro capopopolo che prese il testimone di Masaniello: Gennaro Annese, fabbro, che riuscì a farsi nominare "generalissimo" contro gli spagnoli e addirittura a instaurare una effimera Repubblica. Gli spagnoli, però, troppo presto fecero ritorno a Napoli nel canovaccio della più bieca restaurazione.

"Il cappello del prete", di Emilio De Marchi

Perchè a volte può bastare un cappello, magari proprio da prete, per confutare il nichilismo del dottor Panterre. Lo capirà a proprie spese quel satanasso del barone Carlo Coriolano di Santafusca che se ne sta a rimpiangere la scarsella vuota e la magione in rovina.

Ha bisogno di restituire una cartella da quindici mila lire, il signor barone, se non vuole patire l'onta di una denuncia al procuratore del re.

Pensa che ti ripensa, il nobile decaduto ha l'illuminazione: vendere la casa avita a chi ha i denari per acquistarla. E chi meglio di prete Cirillo che pratica l'usura e che ha nomea di negromante per aver dato alcuni numeri buoni al lotto?

L'appuntamento a Santafusca è fissato. Prete Cirillo, non prima di aver scambiato un terno secco sulla ruota di Napoli con un cappello da monsignore cucito da Filippino, lascia il basso in cui abita e si avvia verso l'ultima destinazione. Nella villa blasonata del barone infatti, per mano dello stesso nobile, vi troverà la morte.

Delitto perfetto? Così sembrerebbe se non fosse per il cappello del prete.

Le cose sono andate pressapoco così: un cane ruba il cappello del parroco lasciato inavvertitamente sul luogo del delitto (l'unico errore del barone) e lo porta a Salvatore, custode della villa. Frattanto costui muore e a dargli l'estrema unzione è quel santo di don Antonio che inavvertitamente scambia il suo, di cappello, con quello di cui si è appropriato il custode. E mentre il cappello, per un rimorso di coscienza, ritorna al suo creatore, quel Filippino che ha giuocato gli ultimi soldi proprio sul terno rivelatosi vincente, lo stesso copricapo viene a denunciare incontrovertibilmente la scomparsa di prete Cirillo. Pure perchè nel frattempo il copricapo addirittura si sdoppia e il secondo, creduto primo e unico, passa nelle mani di un parente di Salvatore e verrà recuperato da un fantomatico cacciatore (alias il barone di Santafusca). Quest'ultimo lo affoga in alto mare per sbarazzarsene una volta per tutte, ma senza alcun costrutto.

Ironia della sorte, il barone di Santafusca inizia a vincere al gioco in maniera smodata, proprio ora che non avrebbe bisogno di soldi per via delle ricchezze della buonanima del curato di cui si è impossessato.

E intano, nonostante la tanto decantata superiorità della materia rispetto allo spirito, il barone di Santafusca sembra quasi inseguito dal cappello del prete e dai mille accadimenti che verranno a riguardarlo. Finchè, convocato in tribunale per una deposizione che non può che assumere i connotati di una formalità (lui è pur sempre" U barone" !), inizia a contraddirsi e a non reggere oltremodo il peso della coscienza. Quella coscienza che sarà avviluppata dalla seta del cappello fino a trovarsi inchiavardata nelle secche della verità. Non gli resta che confessare, ebbro di furore per non essere stato in grado di declinare il suo materialismo al cospetto di un misero copricapo da prete.

Pubblicato nel 1888 quando Giovanni Verga dava alle stampe il Mastro Don Gesualdo, l'opera di Emilio De Marchi, per ammissione dello stesso scrittore, vuole provare che si può scrivere un ottimo romanzo d'appendice senza recarsi necessariamente in quel di Francia. Tutto questo non disdegnando (tutt'altro!) il grosso pubblico, i famigerati "centomila" (lettori) cioè che ben presto l'opera raggiungerà, grazie anche all'uscita a puntate sul Corriere di Napoli.

"La gita in barchetta", di Andrea Vitali

Ed eccoci in una nuova storia del sempre godibilissimo Andrea Vitali. Da dove partiamo, 'sto giro? Proprio dalla gita in barchetta del titolo, che verrà a costituire lo snodo principale della vicenda raccontata nel libro.

Sulla barca ci sono Vincenza e Niccolò.

Vincenza è la terza figlia, fresca di diploma magistrale, di Elena Fulgenzi, vedeva Cereda. Quest'ultima, bella e disincantata per via di un marito rivelatosi troppo presto un cattivo affare, ha altre due figlie, entrambe di capitale importanza nell'economia del romanzo.

C'è Rita detta "La Scionca" per via di un'evidente zoppia, che è la più saggia e la più responsabile delle sorelle, a cui tutti ricorrono per cercare sostegno e comprensione. Tutti tranne la madre, che vede in Rita l'emblema della vita grama che ha condotto e una minaccia per quella che ancora resta. Poi c'è la malmaritata Lirina, costretta a sopportare, con frequenti cadute nello squallore avvinazzato, il marito Loreto Damato a cui purtuttavia trova la forza di ribellarsi. E infine, ecco Vincenza che se ne sta nella barchetta, nella parte più profonda del lago, in compagnia del bel Niccolò: una ragazza di una bellezza adamantina che viene a essere l'unica possibilità di riscatto per la vedova Cereda.

Un giorno si presenta alla sartoria della vedova, Assunta Sciacca, una donna che lesina il centesimo in vista del lusso che da lì a poco pervaderà la sua esistenza e quella dell'intera famiglia: quel Niccolò che si laurerebbe dottore in giurisprudenza ma che per la mamma è già avvocato. Ci sono dei pantaloni da allungare che esigono l'intervento della Fulgenzi. E l'Assunta, ancora coi calzoni in mano, scorge la leggiadria di Vincenza mentre la Cereda immagina l'avvocato proprietario dei pantaloni e e soprattutto la vita di agi che si cela dietro quel titolo se solo...

Le due donne, le due madri, s'incontrano, e brigano per realizzare il meglio per i loro rampolli. Vincenza e Niccolò: una unione perfetta, se non fosse per quella gita in barchetta e per tutto ciò che ne conseguirà.

In questo romanzo, tripudio della femminilità, ci appare un Vitali diverso: più poetico, meno impigliato nei gustosissimi siparietti e inciuci di paese (che pur ci sono, ci mancherebbe!), con una venatura crepuscolare che non dispiace.

Senza contare l'inconsueta ambientazione: non più gli anni '30 del secolo scorso, o comunque il Ventennio, ma addirittura i primi anni Sessanta: gli stessi anni che consentono a un indovinatissimo Marinati Gioele, al secolo Sofia per le preferenze "dell'altra sponda", di riesumare dal suo giradischi spalancato a favore di balcone hit del calibro di In ginocchio da te o È l'uomo per me.

Colonne sonore, manco a dirlo, che sia accordano alle alterne vicende sentimentali del personaggio e che ci fanno compagnia durante la lettura.

"La vedova Couderc", di Georges Simenon (trad. E. Franzosini)

Un uomo cammina sotto il sole, al centro della strada. Passa un autobus. Alza una mano e sale a bordo con la stessa naturalezza con cui avrebbe fatto qualsiasi altra cosa.

Sul bus c'è una donna con "una macchia coperta di peli scuri e come di seta sulla guancia sinistra".

Lui è Jean, lei è Tati, la vedova Couderc.

Lui è figlio del ricco fabbricante di liquori di Montluçon. È un figlio rinnegato perchè insiste nel chiedere al padre gaudente la parte di eredità della madre. E lo è soprattutto perchè ha appena finito di scontare la pena per l'omicidio di un uomo.

Per quale motivo ha ucciso? Per l'incomprensione del suo professore d'inglese del liceo e perchè ancora una volta qualcuno ha preteso troppo da lui.

Lei è, per l'appunto, la vedova Couderc, in guerra perenne con la famiglia del defunto marito per tenersi per sè la casa in cui è entrata sguattera. A tal fine, si concede al suocero con una naturalezza disarmante.

Perchè decide di portarsi a casa Jean? Perchè sente che è l'uomo giusto per darle manforte nei suoi propositi.

E intanto il destino inizia a oliare le sue ruote dentate.

Di fronte alla casa di Tati, c'è quella della cognata. E in essa, la giovane Fèlicie, dai capelli rossi e dalla carnagione setosa, che accudisce un bambino fatto con chissà chi.

Jean, impegnato nelle mille incombenze che la vita contadina richiede, sembra poter essere in grado di condurre un'esistenza finalmente serena. Poi c'è Fèlicie...

Frattanto la vedova Coudrec ha una colluttazione con il cognato. Si procura una ferita profonda al capo che la costringe all'immobilità e, di conseguenza, la rende totalmente dipendente da Jean.

La sua smania di controllo cresce ancora di più.

Le cose all'improvviso precipitano: Fèlicie desidera "un appartamentino di tre stanze dove stare tranquilli" così come la Zèzette dell'adolescenza di Jean pretendeva la vita a cui si sentiva destinata. Dal canto suo, la vedova Coudrec vorrebbe che Jean reclamasse dal padre la sua parte di eredità.

C'è altresì l'ardente desiderio della donna di tenerlo sempre con sè, magari di condividerlo anche con altre donne, purche trà queste non ci sia quella strega di Fèlicie.

Jean capice che gli ingranaggi lo stanno conducendo verso l'esito che prima o poi l'avrebbe riguardato: "l'omicidio sarà punito con la pena di morte nel caso in cui sia stato preceduto, accompagnato o seguito da un altro crimine". E il martello che gli era servito per togliere i ripiani della frutta è lì, a portata di mano.

Il fato ineluttabilmente si compie, non prima di aver sofferto un solo, rapidissimo moto di rabbia (Sono stufo! stufo! stufo! (...) Capisci? Capite, tutti quanti? Sono stufo!...) che avvicina Jean al Meursault de Lo straniero prima dell'esecuzione. Ma, a ben vedere, in comune con l'opera di Camus c'è pure il senso angoscioso del destino che si compie a prescindere dal volere dei protagonisti.

Georges Simenon, come già nell'altra opera L'uomo che guardava passare i treni, dimostra che si può essere grandi giallisti e dar vita a un personaggio meraviglioso come il celeberimo commissario Maigret, solo se si è capaci di scandagliare con mirabile maestria il cuore umano.

"Critica della identità pandemica", di AA. VV.

 Critica della identità pandemica, edizioni Melagrana, è un volume che raccoglie ben quarantuno testi apparsi sulla rivista online LEF, dal marzo 2020 al marzo 2021: dal periodo, quindi, di maggior recrudescenza della pandemia fino al suo efficace contrasto.

Questo testo corale si propone come un’accurata indagine sulle dinamiche dapprima embrionali, poi via via sempre più nitide nel suo sviluppo, del Covid-19: il suo stravolgimento delle strategie sanitarie, la sfida che la pandemia, ben presto diventata sindemia, ha lanciato al nostro welfare state e all’idea stessa di politica. 

Per muovere una critica accurata, però, c’è bisogno di analizzare il fenomeno e le sue ripercussioni nelle diverse fasi che lo contraddistinguono: guardare, capire, parlare, agire. E sono proprio queste le categorie in cui gli scritti vengono ordinati, a seconda del riferimento di ognuno di essi alla fase in cui l’intellettuale engagé si pone di fronte all’oggetto della sua ricerca.

Il leitmotiv dell’analisi è l’estrema fragilità dell’essere umano (la c.d. canna pensante di Blaise Pascal) che può essere annientato dal vapore o da una goccia d’acqua e, ciononostante, credersi onnipotente. Ma l’unica onnipotenza che ci possiamo riconoscere nonché permettere, chiosa il prof. Rino Malinconico, è quella del pensiero (Cogito, ergo sum) che ci attribuisce la “signoria” sul mondo. Non di un semplice “pensare” astratto o puramente contemplativo si tratta, bensì di un “pensiero combattente”, che ci fornisce la cassetta degli attrezzi anche per fronteggiare un’epidemia di proporzioni mondiali come il Covid-19.

Eppure la pandemia ci deve fungere da monito: occorre rigettare, una volta per tutte, la declinazione capitalistica della c.d. vita egotica per far spazio alla fragilità nel nostro vivere quotidiano; e dentro questa vulnerabilità, cercare la via di uscita. E sì perché, secondo gli autori di Critica della identità pandemica, una uscita di sicurezza capace di metterci in salvo, non solo c’è, ma è obbligatorio percorrerla se ci si vuole immunizzare dalle brutture e dalle ingiustizie di questa società alienata: la svolta convinta e ostinata a sinistra.

Il momento per rifondare una Sinistra veramente tale, paradossalmente, è proprio questo: quello, cioè, in cui i dogmi del liberismo sono stati sbugiardati. Si è constatato, infatti, che la tanto decantata economia moderna, se non funzionano la politica e lo Stato, non ha spazio. Ma vi è di più: si è dimostrato anche che lo Stato e la politica non sono autonomi, in quanto dipendono fortemente dalla società. Basta guardare, a tal proposito, a cosa è stata costretta a fare la politica nella fase più acuta della pandemia; e la sospensione del patto di stabilità e la chiusura delle fabbriche sono solo due esempi.

Senza contare il fatto che è il paradigma capitalistico in quanto tale a essere investito e posto sotto accusa. E ciò per la sua nefasta eppur convincente attitudine a ridurre la natura e l’umano a nient’altro che merci, commisurate tra loro attraverso i valori di scambio. Poi può capitare che si diffonda un virus mortale, e la trama e l’ordito della destra più becera si sfilaccia miseramente.

Sta alla Sinistra trovare la forza e la maniera di approfittarne, non prima di aver fatto chiarezza al suo interno, anche a livello strutturale: questo tempo fluido può ancora farsi rappresentare da una Sinistra che, parafrasando Jean Paul Sartre, si articola come una “organizzazione pratico-inerte” o non piuttosto come un più dinamico “gruppo in fusione”?

Questa raccolta di scritti, pur essendo accomunati dal pensiero progressista dei loro autori, racchiude diverse sensibilità e approcci al Covid-19 e, soprattutto, alla sua incidenza sulla società che dev’essere necessariamente rimodellata. Se non ora, quando?