giovedì 4 giugno 2020

Giovi, la strada per il parto


C’è una strada, a Giovi. Oddio, detta così la cosa, sembrerebbe che ce ne fosse solo una, di strada a Giovi.  E invece no.

Quello che voglio dire, è che c’è una strada in particolare, a Giovi: quella che si snoda tra l’unico ufficio postale di Piegolelle e l’ultima curva panoramica di Bottiglieri. Ebbene, questa strada è un unicum per tutta Salerno. È si asfaltata, ci mancherebbe, ma lo strato di asfalto presenta, in ordine sparso, fossi, balze, crateri, dislivelli, gobbe, pantani, grattugie bituminose. Il tutto, manco a dirlo, amalgamato dalle bestemmie più o meno peccaminose di chi si trova a percorrerla.

Eppure, da circa un mese, anche questa strada ha trovato la sua ragion d’essere. Dopo infatti che gli autisti, i ciclisti, i cinghialotti multistrato del footing hanno rotto, nell’ordine, semiassi, ruote e caviglie, a Marcovaldo il tabaccaio si è accesa la lampadina.

Come tutte le cose destinate a cambiare il mondo, l’idea è nata per caso

“Tu vuoi favorire le contrazioni di tua moglie, che così te la sgrava presto presto la nennella? Venite in macchina con me e, senza nemmeno il tempo di dire “Madonna mia, aiutami!”, la femmina tua sarà già in sala parto.”

Com’è come non è, davvero la signora Brigida, dopo aver percorso il tratto di strada tra Piegolelle e Bottiglieri a bordo dell’auto di Marcovaldo, tra un dosso e un fosso, è stata assalita dalle contrazioni. A tal punto che se il tabaccaio non fosse stato lesto di acceleratore, avrebbe visto la sua tappezzeria a coste blu naufragare nelle “acque rotte” della signora Brigida.

È bastato quest’evento a far spargere la voce. E adesso, quando la gravida all’ultimo stadio si danna col maschio per ‘ste benedette contrazioni che non ne vogliono sapere di venire”, si sente addosso lo sguardo sornione del “mo me la vedo io.”

E così, dopo aver percorso la strada incriminata, non c’è altra via che non sia quella dell’ospedale o della clinica.

In conclusione, se all’ormai rinomata “passeggiata della partoriente” aggiungiamo anche l’avida lobby dei meccanici (ogni settimana almeno un giovese, cascasse il mondo, bussa alla loro saracinesca per il semiasse andato alla malora), non ci saranno santi che tengano: la strada che da Giovi Piegolelle mena a Bottiglieri rimarrà sempre così, sgarrupata da far ribrezzo, per omnia saecula saeculorum.

Requiescat in pace.

 

 

martedì 26 maggio 2020

"Regalo di nozze", di Andrea Vitali


Eccolo qui, Ercole Correnti. Ha ventinove anni, e tra qualche giorno pronuncerà il fatidico sì.

Frattanto s'affretta a raggiungere mamma Assunta per la consueta cena. Oddio, a esser sinceri, più che attratto dal desco non propriamente da gourmet (“sua madre ai fornelli non ci sapeva fare”), Ercole vuole arrivare in tempo per celebrare, come si conviene, la sua ultima domenica da scapolo.

Sul lungolago, però, all’improvviso una visione: una 600 bianca precisa’ntifica a quella di suo padre Amedeo. A un tempo, la prima e unica autovettura acquistata da suo padre e la prima e l’ultima che lo zio Pinuccio aveva guidato.

Già, lo zio Pinuccio!

Aveva trentott’anni ma ne dimostrava al massimo trenta. Cacciaballe impunito  soprattutto “quando aveva sottomano qualche donna da circuire”, arbiter elegantiarum (“per me l’eleganza è tutto”), quella sera di vent’anni addietro se ne uscì con la proposta monstre: mentre la famiglia era impegnata nel rituale (“rito coordinato, quasi che dietro ci fosse una regia”) del gettare gli avanzi ai gatti del quartiere, infatti, dall’angolo delle proposte indicibili sgaiattolò fuori un:«Perché domani non ce ne andiamo a fare una bella gita al mare

Dopo un attimo di sconcerto, tra lo scuotere della testa della mamma “come per scacciar via delle mosche” e le braccia allargate del papà, il «sì» entusiasta del raggiante Ercole ebbe la meglio.

Anche lui avrebbe visto finalmente il mare.

La 600 bianca, dopo mille giri a vuoto, qualche conato di vomito del piccolo Ercole e le imprecazioni post strada immancabilmente sbagliata, porta la famiglia Correnti a destinazione. Manco il tempo di godere, trafelati e spossati, di quell’enorme distesa d’acqua, che una foto scattata solo per finta riporta Ercole, Amedeo, Assunta e Pinuccio nei circuiti delle piccole manie di provincia.

Una mancanza, fulminea, inaspettata (“Allo zio Pinuccio non bastò passare tutta la notte in veglia per comprendere che…era davvero morto”). Il tempo per elaborare il lutto, e la decisione inaspettata di sposarsi: "era giunta l’ora di mettere la testa a posto."

La 600 bianca, ancora lei, che assume le vesti del regalo di nozze per lo zio Pinuccio, ex “nato gagà”. Eppure le acque del lago, a volte, sanno essere davvero voraci. Una curva, un fuoripista, e le gesta dello zio Pinuccio vengono consegnate, armi e bagagli, alla leggenda di Bellano.

Di fronte alla mamma, alla vigilia del suo matrimonio, Ercole Correnti aggiunge l’ultimo tassello alle mirabilia dello zio Pinuccio: la leggendaria gita al mare di vent’anni addietro era stata architettata e posta in essere per sfuggire a un altro, di matrimonio; stavolta e per sempre, avvolto nelle nebbie dell’irrimediabilità. E purtuttavia, senza rancore, come dimostra quella foto che adesso Ercole si trova a rigirarsi, sorridente, tra le mani.

“Di fronte a uno che sa raccontare, che ha la felicità del racconto, ti senti grato” (A. Camilleri)

 

 

giovedì 21 maggio 2020

Avvocati in naftalina


Basta armarsi di un po’ di pazienza e li troverai lì, ognuno all’insaputa dell’altro, ciascuno con orari e manie diversi da quelli dei colleghi, a costeggiare i perimetri degli uffici giudiziari.
Come il latitante che finirà sempre a rintanarsi in un buco di culo vicino al suo paese natio, così gli avvocati. Sì, magari li vedrai camminare a passo svelto, con la borsa similpelle dei fascicoli migliori, con l’abbronzatura di chi si è dimenato da una fumisteria del diritto all’altra. E pazienza se, da marzo e almeno fino a settembre, il passo svelto è e sarà quello di chi circumnaviga terre inesplorate solo per distanziarsi dal cliente dell’ “Avvoca’, ma quei soldi, ce la faccio a vederli prima di andare in pensione?”; poco male che la borsa similpelle, apparentemente abboffata come la zampogna natalizia sulla nota più grassa, è e sarà imbottita dai manualoni del ragionamento critico-numerico; peccato che l’abbronzatura color pervinca è e sarà la disperata mossa di giardinaggio, d’agricoltura o di semplice “stallo balconiano” data in pasto alla famelicità delle giornate floscie.
E sì perché, com’è ormai noto a tutti fuorché al cliente di cui sopra che si ostina a implorare diritto in un mondo storto, gli avvocati sono ibernati in un bozzolo d’irrilevanza: udienze rinviate alle calende greche o imbalsamate nella rete del vorrei ma non posso; adempimenti inadempienti per cancellieri alternati e snervati dalle telefonate e dalle mail inevase.
Insomma, l’avvocatura è stata messa sotto naftalina.
Già, proprio come le nostre nonne facevano con le lenzuola per difenderle dalle tarme, in attesa della stagione propizia per tirarle fuori dall’armadio.
Gli avvocati, infatti, sono stati acciuffati nelle aule dell’ “e però c’è prima la mediazione obbligatoria”, nelle cancellerie del “voi avvocati rovistate nei fascicoli, li perdete, e poi li volete da noi”, negli studi legali dell’ “ancora un’altra ora, tanto c’è tuo marito a casa”, e così come si trovavano, sono stati piegati, possibilmente a novanta gradi, e riposti nel cassetto della giustizia denegata. “In attesa della stagione propizia”, proprio come le lenzuola di poc’anzi. Con la differenza, non trascurabile, che le naftalina, per sua stessa natura, preserva i tessuti; agli avvocati, invece, fa l’effetto di rodere, fino a scarnificarlo, il fegato. Certo, poi ci sarebbero le aspettative frustrate, gli studi sviliti, i costi esorbitanti di una professione, quando va bene, ormai operaia. Senza contare che, all’orizzonte, non si staglia nessuna stagione, men che meno propizia.

giovedì 14 maggio 2020

Libertà dalla pandemia con Orlando

Avrei tanto voluto puntare sul mio cane, ma una pappagorgia smisurata unita a un’indolenza che solo le bistecche e il ritorno del padrone possono vincere, mi hanno già da tempo fatto mettere sulle tracce di un sostituto. Non ho dovuto cercare troppo. A un tiro di schioppo da casa mia, un cane giovane e vibrante, ogni mattina, è costretto a tirarsi appresso una padrona che proprio non ce la fa a stare dietro alle sue intemperanze.

Ecco, quello è il mio cane. Nei giorni scorsi, ho osservato gli orari della sua passeggiata, ho provveduto a ingraziarmi la padrona offrendomi più volte di aiutarla a portare le buste della spesa. Nondimeno, non ho smesso un solo momento di corteggiare spudoratamente il furioso Orlando. Poi, una volta certo che anche la padrona avesse approvato la mia complicità con l’animale, osservando sempre la tirannica distanza anti-covid, ho azzardato: “Signora, le dispiacerebbe se domattina vengo a prendere Orlando e lo porto un poco a sgranchirsi le zampe?”

La mia offerta viene veicolata con un atteggiamento a metà tra la compassione per Orlando a causa della sua perenne cattività, e la comprensione per l’anziana padrona che ogni giorno rischia tibia e perone per l’esuberanza del cucciolo.

“Oh, certo che sì. Vero, Orlanduccio mio, che vuoi farti una corsetta con il nostro Vincenzino?”

Gli occhi elettrici del cane passano in una frazione di secondo dalla sua padrona a me. Attimo di esitazione.

Lo scodinzolio festante suggella il patto.

La mattina dopo, di buon’ora, sono già sullo sterminato campo oggetto di attento sopralluogo nei giorni precedenti.

Io, Orlando e una distesa chilometrica di erba.

Muscoli e fibre sono tesi allo spasimo.

Un cenno d’intesa, l’ultimo.

La corsa inizia sconclusionata e senza riserve. I cuori scalpitano all’impazzata.

Questa è la mia libertà dalla pandemia; dai morti d’aria, dagli intubati che implorano carezze da uno scafandro impotente, dalla distanza che smarrisce l’umanità, dall’egoismo che inchiavarda bare con puntelli di profitto.

La nostra corsa è quella di chi festeggia la pioggia al lazzaretto di Renzo e Lucia, dei partigiani che smaltiscono le tossine nazi-fasciste dell’orrore, dei bimbi africani finalmente ammessi all’imbandita mensa delle opportunità.

Corse, quest’ultime, tutte diverse. Ma ognuna di esse bastevole, di per sé, a giustificare un’esistenza. Libera, almeno per la durata della corsa.

  

lunedì 11 maggio 2020

"Canone inverso", di Paolo Maurensig

Un gentiluomo si vede recapitare un pacco all'albergo in cui alloggia. Sa già cosa contiene l'involucro: un preziosissimo violino di Jacob Stainer (uno dei più apprezzati liutai tirolesi del '600) che si è aggiudicato a un'asta di strumenti musicali per una cifra più bassa rispetto al suo valore intrinseco.
Piccolo particolare dello strumento: una testina antropomorfa intagliata sul cavigliere (...) Si sarebbe detto un mammelucco, dai lunghi baffi spioventi, l'espressione feroce, e la bocca spalancata come in un urlo di dolore o di maledizione.
"Dolore" e "maledizione" che ben presto, l'ospite venuto nella camera d'albergo (uno scrittore in cerca di una storia di musica da raccontare) a prendere atto di una sconfitta (avrebbe potuto e dovuto aggiudicarselo lui, il violino) intreccia in una trama puntellata da note musicali e solitudini acuminate come i freddi inverni del nord.
Una notte, in una taverna, un saltimbanco con violino vende la propria musica al miglior offerente. Dopo un po', si dichiara pronto a imbrigliare la melodia del suo strumento con la richiesta musicale che lo scrittore e musicologo vorrà avanzargli: la Ciaccona di Bach (pezzo difficilissimo) al prezzo di mille scellini.
Una provocazione, senza dubbio, che nessuno strimpellatore di strada avrebbe potuto soddisfare. A meno che sotto le mentite spoglie del musico ambulante non si nascondesse un musicista di indubbio talento. Già, proprio così.
E la impervia Ciaccona non solo viene eseguita, ma addirittura eternata da un violinista di prima grandezza.
Quali esperienze traumatiche, quali fallimenti si nascondono nell'animo di chi, per talento, avrebbe potuto calcare i palcoscenici dei teatri più celebri al mondo?
In un'altra notte, davanti a un altro tavolo di un bar, il musicista Jeno Varga si racconta: dall'infanzia povera dove il padre, che prima o poi tornerà con il colbacco ben calzato sulla fronte, la mantellina sulla spalla, in arcione a un baio nervoso, gli ha lasciato un violino in dote, al suo talento musicale che ben presto gli farà spalancare le porte dell'austero e snervante Collegium Musicum; dall'incontro con la travagliata Sophie Hirschbaum che gli ammalierà il cuore, a quello con l'altro da sè collega di studi, Kuno Blau, con la sua grandezza musicale che non può che essere tramandata da geni beffardi, loro sì, verso gli umilissimi natali di Jeno Varga.
Eppure, la posizione del violinista avrebbe dovuto mettere sulla buona strada il lettore un attimino più accorto. A che mi riferisco?
Avete mai riflettuto su quanto sia innaturale la posizione del violinista? Toglietegli lo strumento dalle mani mentre è intento a suonare e guardatelo: quegli arti irrigiditi, quegli occhi semichiusi, quella pronazione dell'avambraccio sinistro e la testa riversa da un lato, non vi ricordano la deposizione dalla croce del Cristo?
E come per ogni croce c'è una testa, così, per ogni melodia, vi è un'imitazione che le si sovrappone progressivamente e fa muovere la voce conseguente in moto contrario alla voce antecedente: il canone inverso, per l'appunto, che viene a unire indissolubilmente le sorti di Jeno Varga a quelle di Kuno Blau.
Sullo sfondo, per tutto l'accattivante romanzo, il filo conduttore della musica ragione di vita che può condurre, in determinati ed estremi casi, anche alla morte. E ciò accade quando il tempo delle marce che apparecchiano l'olocausto mondiale mal si accorda con le atmosfere trasognate del violino.

giovedì 7 maggio 2020

Salerno non è una città per pianoforte

Salerno non è una città per pianoforte. Certo, le iniziative musicali, soprattutto messe in campo dal Conservatorio “Giuseppe Martucci”, non mancano. Ma la mia asserzione , più che ai vari, meritori eventi organizzati anche con il patrocinio del Comune di Salerno, riguarda due parametri essenziali per chi voglia capire quanta cultura pianistica ci sia nella nostra città: le scuole di formazione e i negozi di vendita del pianoforte.
Procediamo per gradi: fino a tre-quattro anni fa, quando mi trovavo in zona, passavo sul trincerone, all’altezza di via Pietro da Eboli, solo per respirare l’aria di solfeggio e per ascoltare le “scale metodiche, tenaci, scorate” della scuola di musica (non ne ricordo manco più il nome) ubicata sopra una filiale di banca.
Più di una volta, quando qualche impegno non era troppo esigente con i miei minuti a disposizione, ho gironzolato sotto il balcone, arricchendo l’animo di ogni nota che l’allievo di turno decideva di regalarmi.
Da qualche anno, via Pietro da Eboli piange una scomparsa. Ovviamente, non della banca che è rimasta lì più indispensabile che mai, ma proprio della scuola di musica a cui mi aggrappavo per disegnare ghirigori di diesis e bemolle che addolcivano le mie pause.
Veniamo al secondo parametro, quello dei negozi di vendita del pianoforte. Alzi la mano il lettore, anche il più distratto, che non abbia notato come all’intersezione tra via Diaz e via Manzo, da qualche anno, l’idra dalle innumerevoli teste del profitto abbia cancellato la presenza di “Napolitano Pianoforti.”
Questo negozio non si limitava solo a vendere pianoforti. Forniva anche personale qualificato per accordare lo strumento oltre che vendere libri di musica.
Uno dei miei primi spartiti che mi fece finalmente mettere le mani sulla tastiera, l’ “Ave Maria” di Schubert, ovviamente in versione semplificata, lo acquistai proprio da “Napolitano Pianoforti.”
Un pomeriggio d’inverno, nonostante la mia arte pianistica sia tuttora appena mediocre, ricordo di aver trascorso in questo negozio più di tre ore a strimpellare il Petrof  marrone e lo Steinway & Sons nero. Allorché scorgevo un smorfia d’impazienza sul titolare del negozio, me ne uscivo con la scusa che stavo cercando la sfumatura di suono che mi avrebbe finalmente convinto ad acquistare un modello piuttosto che l’altro.
Ebbene, quando passo di lì, non posso che considerare la chiusura di “Napolitano Pianoforti” non già come qualcosa che riguarda le vicissitudini di un singolo commerciante, ma, come per la chiusura della “Libreria Internazionale” per ciò che attiene ai libri, un abbrutimento dell’intera città.
Per la cronaca, al posto della storica “Napolitano Pianoforti”, si è aperta un’agenzia immobiliare. Ora, se avete bisogno di acquistare e/o cambiare abitazione, vi basta fare una puntatina qui, in via Diaz, non prima, ovviamente, di aver acceso un mutuo allo sportello in via Pietro da Eboli: nell’altro tempio, quindi, che è sorto sulle rovine di un incommensurabile universo bianco e nero.
Salerno, decisamente, non è una città per pianoforte.

La mascherina di Robertino

Diciamocela tutta: larga parte di noi, a Salerno, in Campania, non ha avuto esatta percezione della pandemia. Al netto delle 360 e passa vittime e dei familiari che quelle morti hanno dovuto piangere (in solitaria), infatti, abbiamo vissuto un po’ il covid-19 nelle retrovie, in trincea; e questo mentre regioni e città del nord hanno visto sfilare nelle proprie strade carovane di camion militari trasformati in urne cinerarie. Io, per esempio, pur attenendomi più o meno scrupolosamente alle disposizioni anti covid, ho avvertito il pericolo di morte da pandemia come Montalbano il rischio di vedersi servire da Enzo il luccio anziché la consueta triglia di giornata: un’eventualità, cioè, alquanto remota.
Tutto questo, fino al 2 maggio scorso. Nello specifico, fino a quando il commissario straordinario all'emergenza coronavirus, dottor Domenico Arcuri, non ha sbandierato in diretta tv le mascherine per i bambini: piccole fibre di poliestere su cui, probabilmente per anestetizzare il senso di costrizione dei pargoletti, sono stati impresse le immagini colorate di eroi ed eroine, animali e fiori.
Nel momento stesso in cui il sorridente commissario mostrava quelle mascherine a favor di telecamera, ho acquisito piena contezza dei disastri causati dal covid-19. La mia mente è andata subito alle mille intemperanze di un bambino nel suo lungo e scostumato approccio con il mondo e con l’altro da sé.
Il toccare, l’annusare, il capitombolare, l’infrattarsi in corpi, selve e straducce. Attività indispensabili, queste ultime, costrette a essere mediate da un ostacolo fisico, la mascherina per l’appunto, e da un altro, non meno invalidante ed estraniante, come il peso dell’apprensione dei genitori.
Al pensare ciò, allora, scaglie di freddo hanno preso in ostaggio la mia spina dorsale. Per un attimo, mi è mancato il respiro. E immediatamente, dalle risacche della mia memoria, è riaffiorato lo sketch di Massimo Troisi in Ricomincio da tre, quando il Gaetano del compianto artista spinge l’impacciatissimo Robertino ad aprirsi alla vita, se vuole evitare che i complessi mentali diagnosticatigli da “mammina” si trasformino in un’orchestra intera che troneggia nel cervello.
Ecco, a immaginarmi come la mamma iperapprensiva di Robertino al cospetto di un mio figlio per evitargli un possibile contagio, proprio non mi ci vedo.
Da figlio, parimenti, al solo pensiero di essere confinato nella torre eburnea del distanziamento sociale, sia pure a difesa dalla pandemia, mi provocherebbe una crisi di rigetto spropositata.
Da padre o da figlio, quindi, implorerei il vaccino con la stessa veemenza con cui il cieco impetra la vista.
Nell’attesa, che tu sia genitore o figlio, non ti resta che accettare le limitazioni a tutela della salute, nostra e degli altri.