@tutti
E le irrilevanze ingolfano notifiche
@tutti
E il navigatore si fa divo
@tutti
E il vojeurismo s'incista nell'essere
@tutti
E il Super-Io si sublima
@tutti
E il totalsocialismo pianta stendardi
Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi. (Italo Calvino)
@tutti
E le irrilevanze ingolfano notifiche
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E il navigatore si fa divo
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E il vojeurismo s'incista nell'essere
@tutti
E il Super-Io si sublima
@tutti
E il totalsocialismo pianta stendardi
Premessa: il titolo di questo libro, in realtà, è il titolo del film tratto dal libro Poirot e la strage degli innocenti (Hallowe'en Party).
Siamo a una festa di Hallowen in una cittadina di provincia. A casa della signora Drake, donna energica e autoritaria, vengono organizzati una serie di intrattenimenti per i giovani e giovanissimi invitati.
Al termine dell'ultimo gioco della serata, lo snapdragon (in un vassoio pieno di brandy in fiamme galleggiano tanti chicchi di uva sultanina che devono essere afferrati dai giocatori, evitando di scottarsi), i ragazzi si accingono ad andar via, quando vi è la macabra scoperta: in biblioteca, dov'era posizionata la bacinella per il gioco delle mele, la piccola Joyce viene trovata morta. Con la testa tra le mele. Affogata.
Come sempre, Hercule Poirot vincerà la sfida. Per nulla facile, in verità.
Era bellissima, "proprio oggi che..."
«È un superbo brufolo. Non lo toccare. Tra tre giorni maturerà».
Ha insistito per vedermi ogni giorno.
L'indomani avremmo "quagliato": i suoi non c'erano, casa libera. Alludeva, mi allettava, e continuava a guardare la parte alta della fronte.
La mattina del terzo giorno, lì in alto, un cratere innevato. Un obbrobrio. Ho poggiato i due indici alla sua base e...splat!
Mi ha ordinato di confinare la parte alta della fronte nella telecamerina del citofono. Sto da un'ora sotto al portone. Non ha risposto più.
Il ronzio delle eliche è in ogni dove.
Fin da quando sono uscite di casa, Fatima e Mahsa hanno dovuto fare i conti con il rumore: l'occhio è dappertutto.
Sono arrivate al lungomare di Beirut.
Si tuffano. Raggiungono lo scoglio prefissato.
Il rollio, tra le nubi, cova attenzione.
Dopo essersi abbracciate, le due compagne si avvolgono nello striscione Fuck Bibi.
L'accusa, il bacio saffico e il dito medio di Fatima rivolta al cielo.
L'odio, dalla distanza, arma il drone.
L'Arianna di Claudio Monteverdi, la prima tragedia musicale della storia, è stata ritrovata. Ed è proprio quest'opera, notoriamente iettatoria, che ci si appresta a eseguire alla Prima della Scala, la famigerata serata mondana del 7 dicembre.
La direzione è affidata al maestro Oscar Marni, garanzia di sicuro successo.
Eppure le perplessità sull'originalità dell'opera, impregnata di refusi e di "tranelli" musicali, si fanno sempre più forti. Ciononostante il carrozzone del Teatro alla Scala (che lo scrittore Franco Pulcini conosce benissimo per averci lavorato come direttore editoriale), è ben avviato: Iris Guetta, la conturbante e misteriosa Arianna dell'opera, scalda l'ugola che ne dovrà eternare la fama; Olimpio Ferri, il colto e "impossibile" direttore artistico, vigila affinchè la struttura sia ben oliata per la Prima; il maestro De Masi si cimenta con successo nel mondare il testo dagli elementi spuri. Tutto bene, quindi, se non fosse che un mese prima del 7 dicembre, il direttore Oscar Marni viene ucciso. Sul terrazzo del teatro. Un colpo alla nuca. Due dita tagliate, il mignolo e l'indice, infilato l'uno nell'orecchio destro, l'altro nel sinistro.
A indagare è il commissario Abdul Calì, lombardo (molto) d'adozione. Ora, se la prevalenza degli aspetti somatici magrebini sugli italici non è stata mai troppo notata nella sua Sicilia, qui, a Milano...
Per gentile concessione della direzione, gli viene assegnata, con il compito di guidarlo nei meandri del teatro, la giovane Viola che gli diventerà ben presto preziosa: sarà proprio grazie a lei che il commissario Calì riuscirà a orientarsi in quel ginepraio di invidie, pettegolezzi, tradimenti e rivalità di cui è ricco il mondo dell'opera. Poi, certo, ci sarebbe l'attrazione tra due anime complementari...ma questo è un altro discorso.
Il giorno della Prima si avvicina e occorre un colpo di reni per assicurare l'assassino alla giustizia.
Dopo l'iniziale pista passionale (le dita nelle orecchie, conficcate dalla parte mozzata, non starebbero a simboleggiare le corna?) e quella economica (i soldi in ballo sono tanti, per tutto il caravanserraglio di figuri che si affannano attorno alla preziosa opera musicale), la chiave viene trovata nel movente professionale.
La grande musica, si sa, affraterna i popoli ma può, all'occorrenza, anche esacerbare gli animi al punto da spingerli a commettere delitti efferati. Bisogna maneggiarla con cura, la musica. Il rischio è quello che, per sublimarla, la si rovini irrimediabilmente. Proprio com'è successo al Fetonte del timpano del Teatro alla Scala, che per sancire la sua nascita divina (figlio di Elio), ha guidato maldestramente il carro del Sole fino a mettere a repentaglio la vita sulla terra.
«Vorrei un Pinocchio...no, non questo».
Il libercolo della Walt Disney con la sua balena che soppianta il pescecane mi viene squadernato sul bancone.
«Ci sarebbe quest'altro...»
«No, questa è un'edizione scritta male e illustrata peggio».
«Solo 'ste due abbiamo. Pinocchio, soprattutto per i bambini, non tira».
«Scusi, ma lei è avvocato? Ecco, io sarei stato raggirato...due compari lestofanti...mi promettevano di quintuplicare l'investimento...eppure il mio amico me lo diceva...».
«Se a tempo debito un buon Pinocchio avesse tirato...Buongiorno».
L'assassino è praticamente sul patibolo. D'altronde, la morte della vecchia signora McGinty avvenuta per un colpo alla nuca con un corpo contundente pesante e appuntito, è un caso già risolto: James Bentley, pensionante della vittima in serie difficoltà economiche, viene trovato con la manica della giacca sporca di sangue e capelli, entrambi appartenenti alla signora McGinty. Il movente, alquanto misero, le circa trenta sterline nascoste in camera della signora.
Eppure il sovrintendente Spence che ha condotto le indagini non è pienamente persuaso della colpevolezza di James Bentley.
E a chi rivolgersi per esternare le perplessità su una colpevolezza che appare comunque certa oltre ogni ragionevole dubbio? Ovvio, all'ineffabile Hercule Poirot e alle sue instancabili celluline grigie.
Parte l'indagine, come sempre quando a condurla è l'investigatore belga, immersiva: si sposta sui luoghi del delitto, addirittura va a pensione in una stamberga flagellata dagli odiatissimi spifferi, e con una cucina che attenta impietosamente al suo gusto raffinato.
Poirot, con praticamente niente in mano, ha una sola traccia da cui partire: le svariate case e le conseguenti famiglie frequentate dalla vittima in qualità di domestica.
Come un rabdomante, il Nostro cerca di intercettare ogni possibile diceria, suggestione che gli possa aprire qualche spiraglio.
Nulla, almeno fino a quando Hercule Poirot non si imbatte in un ritaglio di giornale trovato tra le (poche) cose della vittima. È un articolo del Sunday Companion intitolato "Donne vittime di lontane tragedie. Dove sono finite ora?" In calce al pezzo, quattro riproduzioni fotografiche piuttosto sbiadite, evidentemente scattate molti anni prima.
Perchè la signora McGinty ha avvertito l'esigenza di conservare proprio questo ritaglio di giornale? E perchè lei, che non scriveva a nessuno e che quando lo faceva il più delle volte si serviva dell'aiuto di qualcuno, due giorni prima di morire ha comprato una boccetta d'inchiostro?
Tutta gente simpatica e perbene quella in cui Poirot s'imbatte, eppure, dalle secche del passato...già, il passato: l'investigatore decide di "andare a vedere". Squaderna le quattro fotografie delle "donne tragiche" sotto gli occhi avidi delle famiglie di Broadhinny indiziate.
Si mette ad osservare quel campionario umano alla ricerca di qualche barlume di reazione. Appena accennato, strisciante, ma qualcosa pur traspare.
Un'altra signora viene assassinata, prova inequivocabile che Poirot è sulla strada giusta. Gli indizi, stavolta fin troppo copiosi, porterebbero a una donna ma, si sa, ci sono dei nomi femminili che possono andar bene anche per i maschi.
Le tare familiari non si prescrivono. E per fortuna perchè proprio grazie a esse, l'omino belga salva il collo al povero James Bentley, smascherando il colpevole e trovando il movente. Non senza l'immancabile colpo di scena.
Ottimo come sempre, cher Hercule.
«Questo è tuo figlio, seppelliscilo».
Una borsa di 23 kg: ossa, brandelli di carne.
Ahmed,13 anni. Smembrato dal bombardamento su Gaza City.
Le mie labbra si mordono a sangue. Poi si schiudono.
L'isteria di una risata deforma il volto di un padre.
Le ossa, quel che resta della carne...e il sorriso di Ahmed?
Le carezze, i baci, il coraggio del bambino svezzato ad attentati e privazioni?
Una borsa di 23 kg, mio figlio.
La mia quota di morte.
E rido, perchè la disperazione è limitata.
"L'infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni". Ma non pensiate che succeda qualcosa che ci faccia improvvisamente diventare grandi. Nossignore, si resta nello stesso corpo di marmocchio dell'estate precedente. Solo la testa tenta una ostinata proiezione fuori dal bozzolo della fanciullezza.
Eppure il decenne Erri De Luca intuisce che, oltre ai libri capaci di spalancare il soffitto del carcerato, c'è bisogno di un confronto, una dualità per saggiare centimetro dopo centimentro, anelito dopo anelito, la crescita del corpo e dell'anima. In aggiunta quindi alle chiacchierate con la mamma spesso irrorate dai suoi silenzi maturi , c'è la corrispondenza impregnata di fatica e piccoli gesti con i pescatori dell'isola. Soprattutto, però, vi è l'incontro con una ragazzina di cui l'Erri maturo non ricorda nemmeno più il nome.
Lei affascinata dal mondo animale in cui ogni gesto ha un significato e dove anche l'azione più cruenta è aliena dalla crudeltà; lui che, fin da piccolo, è alla ricerca della parola esatta, quella che può essere stanata nel cruciverba dei bagni di sole.
I due s'incontrano leggendo "frasi sismiche".
La voce narrante, ben consapevole che con l'atto di nascita si eredita la fatica impressa nello scheletro, sa cosa è in procinto di fare il piccolo decenne: quando decide che è arrivato il momento, offre il suo corpo alla cattiveria dei rivali in amore. Si fa pestare a sangue, per liberare l'anelito alla crescita imprigionato nelle pastoie del suo corpo bambino.
La tacita accettazione delle botte prese, però, non può soddisfare la ragazzina. Il suo innato senso di giustizia ha bisogno dell'accadimento riparatore: i due rivali che se le danno di santa ragione fino ad annientarsi e lui invece, costretto ad aspettare nel buio di una cabina, a guadagnarsi lo scettro della vittoria.
Arriva il bacio, "il primo frutto della conoscenza. Ed è mercurio, quella conoscenza, "un liquido sensibile alla temperatura dei corpi".
Un bacio ad occhi aperti da parte del protagonista, perchè (ormai anche l'Erri De Luca che fu è connesso al mondo animale) "i pesci non chiudono gli occhi".
Le sue mani di bambino, che nel corso degli anni verranno impregnate dall'anelito rivoluzionario, ispessite dallo sfiancante strumento da lavoro ed eternate dall'appiglio sempre sfuggente delle pareti, "imparano lo stupore del verbo mantenere". E lo fanno proprio mentre sono costrette, loro malgrado, a lasciar andar via. In questo caso, per sempre.
Ancora una volta, prima di inziare la lettura di un'opera del maestro, la matita è bella e impugnata: per cercare di assorbire, anche visivamente, i tanti pensieri che scavano dentro e segnano. In maniera indelebile.
Grazie, Erri.
Le strade appiccicose della sagra
I sentieri aggrumati delle Dolomiti
Le rotatorie scontate del supermercato
Le scorciatoie fumiganti delle ferie
I crocicchi ansiogeni delle superstrade.
Il basalto s'impregna di umori
I ciottoli lamentano separazioni
Le curve implorano requie
Gli abbrivi bramano chilometri
Le diramazioni maledicono alternative.
Questo libro è incentrato sulla figura di Zenone, medico, filosofo, alchimista che si trova a vivere in quel periodo turbolento e ricco di fermenti culturali, scientifici e religiosi che è il Cinquecento.
Zenone è un personaggio immaginario, sebbene siano facilmente ravvisabili in lui gli influssi di Paracelso, Michele Serveto, Leonardo (almeno quello dei Quaderni) e Tommaso Campanella.
Nella sua veste di medico, frequenta sia gli ori dei sovrani che le miserie del popolino appestato, sempre gettando uno sguardo scientifico sulle sofferenze che si trova ad alleviare. E ciò in un'epoca in cui anche nella medicina le credenze la facevano da padrona.
Ben presto, nelle sue continue e vaste peregrinationes, abbandona ogni afflato filosofico, ciascuno portavoce della propria verità, per abbracciare l'alchimia in cui tutto è messo perennamente in discussione.
Ignotus par ignotius, obscurus par obscurius ("Andar verso l’oscuro e l’ignoto attraverso ciò che è ancor più oscuro e ignoto"): questo è il principio che regola il mondo alchemico e che Zenone fa ben presto suo, ossessionato dalla necessità di "intelligere" l'oscuro e l'ignoto per antonomasia: l'animo umano.
Figura fluida (etero e omo, affascinato dalla Riforma pur rimanendo sostanzialmente invischiato nei dogmi della Controriforma, ortodosso e ciononostante incuriosito dalle varie e pervicaci sette politico-religiose) in un'epoca che impone nette prese di distanza, Zenone incarna l'anelito alla genialità allergico, per sua connotazione specifica, agli steccati dogmatici e ideologici.
A ben vedere, è il Cinquecento stesso, con le sue continue sovrapposizioni di scene colte dal chiostro e dai bordelli, dai traffici dei finanzieri così come dai miserevoli banchi di vendita, a trasfondersi nelle corde di questo riuscitissimo personaggio.
Eppure Zenone, dopo aver vissuto innumerevoli vite, sempre in fuga da qualcosa (da se stesso, dalla capillare Inquisizione, dagli insegnamenti che l'avrebbero voluto cristallizzare nei "lumi di Chiesa"), alla fine è costretto a denunciare la sua inaccettabile modernità: genio visionario, sempre in avanti rispetto al tempo in cui gli è dato di vivere.
Alla fine tutto si riduce a una scelta: ritrattare come Galilei, e quindi salvarsi. Dimostrarsi invece inflessibile come Giordano Bruno ("eretico e pertinace"), e inevitabilmente finire sul rogo.
Sullo sfondo, una terza via, sicuramente più vicina a quella di Bruno eppur diversa, che unica può suggellare la sconfinata originalità di Zenone. E lui, immancabilmente, la segue.
Eccola l'Opera al nero del titolo: la fase alchimistica della separazione e della dissoluzione della sostanza. La parte più difficile della Grande Opera che spetta a chi s'inoltra nei suoi imperscrutabili sentieri.
Dopo aver scritto, e mirabilmente, di un personaggio reale (Memorie di Adriano), Marguerite Yourcenar si sofferma sulla figura di Zenone, stavolta inventata ma altrettanto suggestiva e ricca di spunti di quella dell'imperatore romano.
«Perchè?»
«E perchè?»
«Ma perchè?»
Il grumo del mio sapere si stempera già al terzo perchè.
E tu qui a sfiancarmi con la gragnuola dei tuoi perchè.
Impietosa.
Irriverente.
Balbetto, oscillo. Cerco ardite deviazioni.
Sono solo un povero padre.
Ho appena riconosciuto i demoni della mia pochezza.
Robert Murray è un giovane e ambizioso medico scozzese.
Riuscito grazie a considerevoli sacrifici e a un' indubbia bravura ad arrivare fino al Methodist Hospital, dovrà ora occuparsi di un illustre paziente (l'enigmatico Defreece, un piantatore di zucchero che possiede gran parte dell'isola di San Felipe nel Mar dei Caraibi) raccomandatogli dal primario in persona.
Un mese, non di più, durerà l'assitenza medica al Defreece da prestare rigorosamente nell'isola. Il dottor Murray, però, non sarà solo in questo compito: verrà coadiuvato da Mary Benchley, un'infermiera che lui "trovava ripugnante con la sua aria di signorina dell'alta società e il suo comportamento fine e disinvolto".
Una volta sbarcati a San Felipe, il medico e l'infermiera non possono non accorgersi dell'aria tesa e per certi versi inquietante che avviluppa in uno il piantatore, la sua famiglia, e l'intera popolazione.
Per di più la figura del dottor Da Souza, vero plenipotenziario dell'isola, sembra acquistare, vieppiù che le agitazioni degli isolani si fanno veementi, una valenza ambigua e misteriosa.
E se la ferita da fuoco occorsa al Defreece durante il tiro al piccione non fosse stata fortuita? E se la stessa giovane moglie del possidente non fosse morta di febbre locale?
Robert e Mary capiscono, loro malgrado, di avere assunto un ruolo importante nelle vicende che si dipanano a San Felipe.
Per quanto riguarda il dottore poi, lo stesso non può evitare di apprezzare la serietà e l'abnegazione alla causa dell'infermiera. Certo, ci sarebbe pure la sua bellezza, ma qui effettivamente c'è poco da concionare, se non che...
La rivolta monta.
Defreece si sente sempre più minacciato.
Una dolorosa scomparsa spinge il dottor Murray, come in un una esiziale partita di poker, ad andare a vedere.
Al centro di tutto, man mano che gli eventi esterni si congiungono con le sorti del possidente, c'è lui, il dottor Da Souza, con i suoi piani deliranti.
Riusciranno Robert e Mary a poteggere Defreece e a venire a capo dei loschi traffici che attanagliano l'isola?
E se magari i due protagonisti unissero gli sforzi e abbandonassero le reciproche diffidenze per un'unità di intenti (non solo professionale)?
Insolito Cronin, questo de Il medico dell'isola che soggiace, almeno a tratti, alle lusinghe del thriller.
<Papà, quando arriviamo?>
<Ma la fila è solo per quel catorcio!>
Giraffo il collo e lo vedo.
Un trattore. Del secolo scorso. Sulla scia del mare.
Il popolo delle ferie sobolle.
Il trattore alfine svolta.
Tra clacson, bestemmie, improperi, clandestina cova la mia solidarietà.
E sorrido.
La fatica l'ha vinta sulle nostre pretenziose depilazioni.
Prendi due scrittori, l'uno un mostro sacro (Camilleri), l'altro un giallista sopraffino (Lucarelli); mettici una quarantina d'anni di differenza di età tra loro; aggiungi i personaggi che caratterizzano oltremodo i due autori (l'immarcescibile Salvo Montalbano e l'arguta Grazia Negro); mesci il tutto in uno scambio epistolare in cui, divertendosi a giocarsi tiri (letterari) mancini, imbastiscono una storia avvincente.
Ecco la genesi di Acqua in bocca della premiata ditta Camilleri-Lucarelli.
Un uomo viene trovato morto con un sacchetto di plastica sulla testa. Di fianco al cadavere, ci sono tre pesciolini rossi. Accanto a questa insolita presenza, un'assenza: la scarpa della vittima. Non c'è, non si trova.
Sarà Salvo a sospettare (a ragione) che il tacco del mocassino "modello Tod's" potrebbe essere di capienza "bastevole per nasconderci tutto quello che si vuole, dai documenti ai microfilm".
L'ispettrice Grazia Negro, quindi, ben fa a non vederci per nulla chiaro in questa morte. Anche per la fretta della polizia di archiviare il caso.
Dalla lontana Bologna, una lettera arriva a Vigata: è una richiesta d'aiuto a Salvo Montalbano il quale, pur con qualche esitazione iniziale, finisce per rispondere "presente".
La morte di Arturo Magnifico merita approfondimenti.
Tra servizi segreti, una conturbante Betta che richiama troppo direttamente il pesce combattente (Betta splendens), messaggi cifrati, cassate siciliane e tortellini in trasferta, Mimì Augello in missione (più o meno segreta) e Catarella che continua a "scangiare" parole e significati, Salvo e Grazia finalmente si incontrano.
Ben presto, però, si renderanno conto che sono diventati loro i soggetti da eliminare.
Sarà necessaria tutta la sagacia di Montalbano e l'abnegazione di Grazia per venire a capo dell'intricato groviglio. Ovviamente ci riescono, ma quando si tratta di assicurare alla giustizia l'artefice della morte del Magnifico e di altre persone più o meno collegate, prendono atto di un'amara verità: che, per certi soggetti "deviati", non c'è giustizia che tenga. Occorre eliminarli. Poichè però, (quasi) tutto si può dire di Salvo Montalbano (a lui viene affidato il repulisti) tranne che sia un assassino, ci penseranno gli stessi servizi segreti a completare l'opera solo avviata da Montalbano.
Molto più spesso di quanto si immagini, i Betta splendens si uccidono tra di loro.
Si ritorna lì dove tutto ebbe inizio: Styles Court.
Come nella prima indagine di Hercule Poirot, anche stavolta, tra le mura di Styles Court (ora diventata una pensione gestita dai coniugi Luttrell), aleggia un'aria sinistra.
Una lettera arriva al capitano Hastings. Il mittente è Poirot che lo invita a recarsi proprio lì, nella pensione incriminata. Mai come adesso, infatti, il celebre investigatore ha bisogno del suo aiuto. La verità è che a causa delle sue disperate condizioni di salute (artrite invalidante, cuore malandato), Poirot è costretto a dipendere totalmente da Curtiss, il nuovo cameriere personale.
Due domande: Poirot è davvero impossibilitato a reggersi in piedi? Perchè, proprio nel momento in cui avrebbe avuto bisogno del suo fidato cameriere di una vita, George, dà il benservito a quest'ultimo e si avvale dell'aiuto del meno acuto Curtiss?
Non appena il capitano Hastings giunge a Styles Court, Poirot gli racconta ben cinque casi, apparentemente risolti brillantemente dalle forze dell'ordine, in cui però niente appare come sembra: il vero assassino, unico per tutte le cinque vicende delittuose, non è mai stato acciuffato. Ma c'è di più: tra le cinque vittime non sembra esserci alcun legame apparente.
Ora, si dà il caso che il deus ex machina di quei cinque omicidi è proprio lì, ospite di Styles Court. E Poirot vuole coinvolgere il fido Hastings nella risoluzione di quest'ennesimo, apparentemente irrisolvibile caso.
È l'ultima occasione per l'investigatore belga di minare dalle fondamenta il dogma del delitto perfetto.
Piccolo particolare: nella pensione alloggia anche Judith, la figlia di Hastings.
Avrà un ruolo in questa storia?
Tra un ferimento dovuto alla distrazione di un tiratore comunque esperto, la morte di un'ipocondriaca causata dalla terribile fisostigmina e un tentato omicidio addirittura perpetrato da Hastings (omicidio, manco a dirlo, sventato indirettamente da Poirot), i nodi vengono al pettine.
Eppure, affinchè cali il sipario sull'intera vicenda e omicida e moventi vengano finalmente scoperti, c'è bisogno che il nostro Poirot consumi anche l'ultima stilla di vita.
Viene così trovato morto, ma non ucciso da qualcuno come pure teme l'affranto Hastings (adesso sì, rimasto davvero solo al mondo, dopo la morte recente di sua moglie) ma stroncato da cause naturali. Non prima però, malgrado la sua storia è lì a testimoniare un'aberrazione totale verso qualunque intento omicida, di essersi trasformato, sì proprio lui, in un angelo vendicatore.
Non per rabbia nè per passione.
Il movente è piuttosto da ricercare nell'assoluta dedizione alla giustizia che non tollera altri sacrifici di vittime innocenti.
Il foro di proiettile al centro esatto della fronte del colpevole (oh, l'amore per le giuste proporzioni di Poirot!) è l'ultimo, impareggiabile regalo che le celluline grigie più famose della letteratura lasciano al Lettore.
Lunga vita, Hercule Poirot!
Jaumà, importante manager della tentacolare Petnay, viene trovato morto con uno slip da donna infilato nella tasca.
Conclusione ovvia: qualche protettore, esasperato dall'ennesima richiesta sconcia alla sua protetta, decide di reagire in malo modo.
La vedova del manager però non è persuasa di questa conseguenzialità troppo comoda della polizia, e incarica Pepe Carvalho di indagare sul caso.
Il Nostro, che ha conosciuto Jaumà in passato, realizza subito che la versione ufficiale fa acqua da tutte le parti. Non foss'altro perchè il giro delle prostitute e dei magnaccia in uno con le sue dinamiche, è il territorio di caccia dell'arguto detective. A tal punto da meritare l'epiteto di "annusapatte" affibbiatogli da qualche collega malevolo.
Nel suo ufficio sulle Ramblas di trenta metri quadri, foraggiato dai pranzetti alla buona del fido Biscuter e orientato dalle dritte di Bromuro, capisce che bisogna partire dalla fotografia degli anni dell'università per venire a capo della morte del manager: un manipolo di compagni con cui, in un modo o nell'altro, Jaumà ha continuato ad avere rapporti.
Ognuno di loro, a suo modo, ha declinato (a volte fino a tradirlo del tutto) l'ideale della Sinistra, unico argine al franchismo imperante.
In una Barcellona in cui la contestazione nelle strade sembra fare il gioco dei poteri forti, nella quale si fa fatica a scrollarsi di dosso le scorie della dittatura, Carvalho costruisce la sua verità sul caso Jaumà.
Quando poi l'auto di un ispettore della Petnay viene trovata nel greto di un fiume e un vecchio commercialista di fiducia del manager gli dà delle dritte sugli ammanchi della società per la quale Jaumà lavorava, Pepe ha finalmente tutti i tasselli al posto giusto.
L'ordine, però, disturba chi vuole che le cose procedano in un certo modo, e la lezione impartita a Carvalho e alla sua Charo, sta lì a dimostrarlo.
Non resta che accettare l'invito per "uno scambio di opinioni" nella villa del personaggio che sta dietro la morte del manager e dei magheggi della Petnay.
Il disincantato Carvalho ascolta la versione del deus ex machina, corredando la sua tesi dei pochi risvolti motivazionali che non poteva conoscere.
Non c'è null'altro da sapere.
Non resta, per sottolineare la sua contrarietà al gioco che gli viene decantato, che versare il Nuit de Saint Georges del '66 direttamente sul tappeto. Sacrificio, per chi conosce la venerazione del nostro Pepe per il buon vino e il cibo, sicuramente considerevole.
Uscito fuori dalla villa faraonica, Carvalho "aveva l'intera geografia del cervello occupata dall'espressione la solitudine del manager".
Le diottrie che mancano, la mia via di fuga.
Gli anni si sommano e le brutture, le ovvietà, le meschinerie si accumulano. E quando la misura è colma, mi tolgo gli occhiali.
Su un uomo banale, un palazzo orrendo, un comportamento indegno la mia miopia stende un velo di sfocata strafottenza. E di finzione.
Perfino l'attempata Conchita sopra di me, d'improvviso, si estenua in nervature adolescenziali.
Sul substrato ributtante della quotidianità, erigo un mondo finalmente accettabile.
Il filo conduttore di questi quindici racconti contenuti nella raccolta Un uomo solo, è la solitudine dei vari protagonisti a cui si contrappongono, in un modo o nell'altro, le trame respingenti della società. Una società, questa pirandelliana, sempre pronta a marchiare ogni minimo comportamento appena appena insolito del personaggio di turno, con le stimmate della stravaganza e dell'alienazione.
C'è la novella che dà il nome alla raccolta in cui i Groa, padre e figlio, due monadi smarrite nel caffè di via Veneto, non trovano altro linguaggio comune che quello, rispettivamente, del bisogno di ritornare con la moglie amata, e della presa d'atto dell'impossibile riappacificazione tra i genitori. Il Groa padre, prigioniero di un corpo sguaiato rispetto alla delicatezza del suo sentire, capisce che per vincere la solitudine non gli resta che balzare sull'argine del fiume e farla finalmente finita.
Ne La cassa riposta una serie di equivoci, anche esilaranti, esaltano la furbizia dell'avaro Piccarone che riesce a spuntarla pure di fronte a un'evidente accusa di colpevolezza.
Il treno ha fischiato è la spiegazione che Belluca, sottomesso e mansueto computista, dà della sua ribellione. Dove gli altri vedono pazzia, c'è solo la constatazione di una realtà diversa da quella misera in cui i casi della vita, a volte, ci incasellano.
In Zia Michelina c'è la frustrazione di veder immolati i principi cardine (come l'amore filiale di una mamma adottiva verso il figlio) all'altare delle piccinerie dell'utile.
Una carrozza di un treno, i passeggeri che parlono dell'eroismo di alcune persone in costanza di eventi estremi come i terremoti. Ne Il professor Terremoto, eccolo il racconto di chi sovverte l'umano sentire: anche l'eroe che salva vite umane può indirettamente compiere il male.
La veste lunga è la certificazione di una maturità arrivata troppo presto. Per liberarsi del calcolo altrui, non resta che quella boccettina che occhieggia dalla borsa del papà che accompagna Didì a un destino segnato.
Ne I nostri ricordi si affronta il tema dell'inaffidabilità di quanto rielaborato, a distanza di tempo, dalla nostra memoria.
Quando la convinzione di tutti diventa certezza, c'è sempre un evento, un comportamento che demolisce dalle fondamenta ogni asfittica costruzione. Questo è l'argomento trattato in Di guardia.
In Dono della Vergine Maria anche l'estrema consolazione, quella della fede, non solo è fallace, ma finisce col punire i miserrimi casi del protagonista, tal Don Nuccio D'Alagna, fino a perderlo del tutto.
La verità è la logica elementare di Tararà che, davanti ai giudici della Corte d'Assise, non può che prendersela con la moglie del cavaliere, colpevole di aver rivelato la tresca tra sua moglie e il nobile e averlo, così, costretto a farsi giustizia con le sue stesse mani.
In Volare la passerotta chiusa in gabbia, allevata a privazioni e a stenti che alla fine trova la strada della libertà, diventa metafora della vita di Nenè.
Il coppo è l'ultima occasione del pittore Bernando Morasco per riscattare una vita di principi e di rinunzie. Riuscirà ad annientarsi nel funzionamento del coppo che fende l'acqua del fiume?
Delusioni e malattie sono anche lo scenario dell'altra novella, La trappola, in cui l'ingabbiamento in una forma corporea (tema tanto caro al maestro Pirandello) viene ancora una volta ad annichilire il protagonista.
Notizie del mondo è una corrispondenza singolare tra due amici, di cui quello che è rimasto qui s'incarica di notiziare delle miserie umane l'altro che ormai non è più. Eppure, in questa fedele ricostruzione degli eventi, il sopravissuto non può esimersi dal difendersi dalle illogicità della vita.
L'ultimo racconto, La tragedia di un personaggio, è l'apoteosi del "cannocchiale rivoltato": il rimedio cioè che consente a Fileno di guardare il presente da una prospettiva lontanissima, che sola può alleviare le angosce e i patemi dell'attualità.
L'afa dei trapassati pomeriggi
inzacchera la fiamma dei fornelli.
La caffettiera cova magmatici assoluzioni.
L'ultimo brontolio in cattività
è il basso che dà l'abbrivio alla campanella.
Dalla scuola di prossimità indiscrete
i bambini squarciano la pinguedine estiva.
Il caffè scorbutico
increspa un riflusso di spensieratezza.
Inestimabile.
In questa seconda opera del corrosivo De Silva, poco cambia: l'avv. Malinconico è sempre qui a rimuginare su atteggiamenti, a fare le pulci a convinzioni e idiosincrasie del nostro (complicatissimo) vivere quotidiano.
Ma allo sguardo rivolto su se stesso che non può prescindere dalla codifica dei comportamenti esteriori, si aggiungono, nell'ordine, il processo in diretta imbastito dall'ing. Romolo Sesti Orfeo (tra il banco frigo e i pelati del supermercato) e il "cattivo male" che viene diagnosticato alla suocera, la mamma di Nives.
E se per il processo a favor di telecamera a circuito chiuso ripreso, manco a dirlo, dalle tv di ogni ordine e grado, vi è la critica feroce alla giustizia celebrata nei tribunali (lenta, goffa, impacciata...praticamente inconcludente), per ciò che attiene ad Ass, la suocera di Malinconico, ci troviamo di fronte a un personaggio di una causticità senza pari. Spirito indomito, quest'ultimo, che solo sa apprezzare la trovata (geniale, perchè qualche volta, anche il Nostro brilla di luce propria) della bottiglia di wisky recapitata al capezzale dell'ammalata.
C'è odore di riscatto, caro Vincenzo: da un lato, infatti, vi è il figurone coram populo (l'ospitata dalla Bignardi è lì a certificarlo) rimediato quando ti sei messo a rintuzzare il populismo esasperato dell'ingegnere che, oltre al delinquente che gli ha ucciso il figlio, tiene sotto scacco l'Italia intera; dall'altro, il fatto che l'imprevedibile suocera vuole che sia proprio tu, più della figlia e degli amati nipoti, a farle compagnia (una compagnia che rifugge da ogni retorica) in questo esiziale momento della sua vita.
Ma vuoi vedere, che gira gira, ti stai affrancando dall'insuccesso sempre in agguato? Chiedere al mandrillo Ragionier (finto dottore commercialista) Espe, coinquilino di studio, per averne conferma.
Sullo sfondo, accanto all'immancabile canzone, possibilmente d'annata, da scandagliare (Se bruciasse la città di Massimo Ranieri e Diario dell'Equipe 84) vi è la storia con Alessandra Persiano che ormai è giunta ai titoli di coda. Ma poichè, come per la prima legge di Newton, un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finchè non intervengono forze esterne a modificare tale stato, la realtà, adesso è chiaro, non supera la fantasia, l'abbassa solo di livello. E allora, caro Malinconico, sai cosa ti dico? Che il telefono che "squittisce e vibra" come un topo che ti vorrebbe riconsegnare tra le grinfie della femme fatale, fai bene a ignorarlo. Altrochè.
Benvenuto nel mondo dei grandi, Vincenzino bello, in cui puoi permetterti anche il lusso di avvalerti della facoltà di non rispondere e lasciare che le cose se la sbrighino da sè, una volta e per sempre. Già, proprio così: come si cucinano, si "minestrano", e a fanculo tutto il resto.
Uscite fuori,
eletti col bagaglio di quiz a risposta multipla,
marci del qualunquismo delle liste civiche,
nullafacenti delle amicizie influenti,
stercorari dalle zampette instancabili.
Jatevenne,
adepti della vacuità multiuso,
praticanti del cerchiobottismo senza ritegno,
vuoti a perdere dopo la grande abbuffatta,
cono d'ombra di ogni singulto di dignità.
Guido Guerrieri, stavolta la cosa si fa compromettente, e a livello sentimentale, e dal punto di visto professionale.
Andiamo con ordine: Margherita vuole parlargli, e Guido s'immagina già intento a cullare il bambino che verrà. Che dovrà venire. Ma, a volte, si sa, le aspettative vengono tradite dal cinismo della realtà.
La sua compagna ha ricevuto una proposta di lavoro che la porterà via per molto tempo. E nel momento in cui glielo dice, Guido Guerrieri ha la netta sensazione che dietro questa comunicazione c'è già una decisione. Di cui occorre solo prendere atto.
L'avvocato Guerrieri si ritrova solo, in un'età in cui le rotture cominciano a far presagire esistenze spaiate.
Dal passato riemerge una figura, Fabio detto Raybàn, che ha segnato l'adolescenza di Guido. Erano i tempi della contrapposizione tra i picchiatori fascisti e gli idealisti di sinistra e, manco a dirlo, attraverso quel Fabio, il Nostro si è imbattuto per la prima volta nei soprusi al retrogusto di manganello.
Ora, a distanza di tanti anni, il picchiatore viene a chiedere aiuto proprio all'avvocato Guerrieri: è stato sorpreso con un rilevante carico di droga di ritorno dal Montenegro assieme alla moglie Natsu e alla piccola Anna Midori, ma lui giura di non saperne niente. Per giunta il difensore che gli si è offerto con modalità alquanto sospette, un tale Macrì dal passato non proprio adamantino, sembra spingerlo verso una condanna inevitabile.
L'avvocato Guerrieri, scelto perchè, oltretutto, lei è una persona onesta, capisce ben presto che di quel Raybàn della gioventù non è rimasto niente. A ribadirglielo, è la conturbante Natsu. Già, Natsu: una bellezza destabilizzante, che ha il fascino di una promessa di condivisione.
Attento, Guido: la faccenda, con i suoi cortocircuiti, è maledettamente rischiosa. Occorre infatti, nell'ordine, difendere chi per logica appare inesorabilmente colpevole, andare contro il dogma intoccabile della solidarietà tra colleghi e, infine, porre argine alla piena di un trasporto (una donna, la figlia mai avuta che, a questo punto, probabilmente mai si avrà) che tu proprio non ti puoi permettere.
La matassa, alla fine, verrà sbrogliata, sebbene la vittoria processuale si alimenti della rinuncia agli affetti appena lambiti. Non resta che citare la battuta finale di "Casablanca" (Louis, credo che questo sia l'inizio di una bella amicizia) mentre il prezioso Carmelo Tancredi e Guido si perdonano a vicenda una provvidenziale alzata di gomito. Poi, quando si tratterà di fronteggiare malinconie e angosce, ci sarà sempre qualche libro notturno de L'Osteria del Caffellatte pronto alla bisogna.
Ora sei mansueto. Rassegnato.
Gli occhi acquosi che implorano compassione.
Il rivolo di saliva che oltraggia il tuo machismo.
Le botte di una vita che mi hanno deformato le ossa.
La mia volontà annichilita dal tuo dispotismo.
Sono padrona della tua dignità, adesso.
Non c'è vincolo matrimoniale nè carità.
Soffri. E voglio vederti soffrire.
Lentamente. Bene.
Fino alla mia redenzione.
Principalmente lettere (dal delegato di p.s. Ernesto Bellavia al Questore di Montelusa e dal Maresciallo dei RR. CC Paolo Giummàro al Capitano), ma anche pagine di giornali, murales, avvisi pubblici, etc. Nelle mani sapienti del Maestro Camilleri, ogni fonte serve allo scopo: provare a spiegare il come e il perchè, subito dopo la rappresentazione del "Mortorio" nel Venerdì Santo del 1890, il ragioniere Antonio Patò, Direttore della locale filiale della Banca di Trinacria, sia improvvisamente scomparso.
Nei panni di Giuda, dopo il suicidio di scena con annessa caduta nella botola del palco, del ragioniere Patò non c'è manco l'ummira: perdita di memoria, omicidio, fuitina?
A indagare, la polizia col delegato Bellavia e i Carabinieri, con il maresciallo Giummàro, dapprima in evidente, scontata competizione; di poi, mano a mano che l'affaire Pato s'ingrossa e che s'appalesa la volontà nella alte sfere di incastrarli, grandi compagni e sodali.
E di comunione d'intenti, per venire a capo della scomparsa, ce n'è bisogno, e pure tanto: tra la sollecitazioni dello zio dello scomparso (nientemeno che un sottosegretario), i conti della banca che, a dispetto della decantata rettitudine del ragioniere, sembrano non proprio in ordine, la mafia che quando si tratta di vicende siciliane, c'entra sempre come il classico cavolo a merenda...insomma, un bel busillisi.
Eppure, per chi ha la costanza di raccogliere e impilare indizio su indizio, le cose cominciano a dipanarsi: c'è il superiore del Patò a casa del quale il ragioniere stesso si reca puntualmente per fare il punto della situazione finanziaria della banca. Tutto normale, se non fosse che il Direttore provinciale soffre di improvvi attacchi di sonno che non gli consentono di presenziare fino alla fine agli incontri col sottoposto, e che la moglie del Direttore, bellissima e sensuale, all'improvviso scompare pure lei.
Ma che c'entra? Per la signora in questione si tratta di morte e non di sparizione, eppure...
Quando ormai la matassa è dipanata, e il Bellavia e il Giummàro redigono rapporto ai propri superiori in cui spiegano ogni cosa, la trappola è pronta per scattare proprio ai danni dei solerti rappresentanti delle forze dell'ordine.
Per non saper nè leggere nè scrivere, occorre prepararsi il famigerato "saltafosso": all'uopo, si può sempre ricorrere a un beccamorto capace di raccattare una salma che abbia fattezze e costituzione assimilabile a quelle del ragionier Patò. Si piazza dove è opportuno farla trovare, e la scomparsa del "Giuda del Mortorio" è bella e spiegata.
D'altronde, se i primi a non voler giustizia (troppo perigliosa e disturbante per il quieto vivere) sono proprio i vertici delle forze dell'ordine che dovrebbero perseguirla senza tentennamento alcuno, tanto vale adeguarsi e attaccare lo scecco dove dice il padrone.
Mosaico di documenti di varia natura, questo La scomparsa di Patò del Camilleri, che supera ben presto il diaframma del burocratese per incantare, ancora una volta, il lettore.
Appena la mia auto arrivava all'incrocio, la coincidenza: un'altra macchina si immetteva sulla strada principale. Da una traversa secondaria. Sempre.
Ho cambiato lavoro. Mi sono trasferito in una città nuova.
Alla guida dell'auto, intraprendo la rotatoria di giornata. Ho appena il tempo di intercettare una scaglia di vernice che un Suv mi precipita addosso.
La morte aveva allestito il set, quello della coincidenza.
La soddisfazione di averla costretta a cambiare location.
Il commissario Maigret è a Moulins. Probabilmente, se si fosse trattato di un altro luogo, non ci sarebbe neppure andato.
Come infatti prestare fede a quel foglio di carta quadrettata comparso all'improvviso negli uffici del quai des Orfèvres?
Vi informo che sarà commesso un delitto nella chiesa di Saint-Fiacre durante la prima messa del Giorno dei Defunti.
Il castello di Saint-Fiacre che il padre del commissario aveva amministrato.
La contessa che agli occhi del piccolo Maigret rifulgiva di un alone di inarrivabilità.
Il prestigio della casata che sembrava inscalfibile dagli eventi.
Il commissario adesso respira, amareggiato, l'area di decadenza che sembra avvolgere tutto e tutti: il castello, ipotecato fin nelle suppellettili; la contessa di Sant-Fiacre, che cambia segretari su segretari, tutti giovani, tutti scioperati, e nei confronti dei quali il chiacchericcio pruriginoso continua imperterrito.
Alla fine della funzione religiosa, tra un gelo che avvolge ogni pagina del romanzo, effettivamente si verifica quello che è stato preannunciato nel bigliettino anonimo: la contessa muore, davanti al messale squadernato: un ritaglio di giornale (vero?) che qualche mano infida fa scivolare tra un'orazione e una preghiera, riporta la notizia del suicidio di suo figlio, Maurice di Saint-Fiacre.
Il colpo è di quelli ferali.
Frattanto il figlio della contessa, che aveva chiesto alla mamma l'ennesimo prestito per evitare un disdicevole arresto, giunge al castello.
Maigret, com'è sua abitudine, studia i vari personaggi che si trova di fronte: Maurice di Saint-Fiacre, per sua stessa ammissione scapestrato e buono a nulla, eppure con una lealtà di fondo difficile da decifrare; l'attuale amministratore, signor Gautier e il di lui figlio, Emile, impiegato in una banca, che non perdono occasione per rimarcare le difficoltà economiche in cui versano le finanze del castello e della famiglia Saint-Fiacre; il curato, con gli occhi ebbri di una denuncia silente verso i costumi corrotti del tempo; il dottor Bouchardon, che sembra non rassegnarsi all'idea di una morte innaturale.
La sala del castello illuminata dalle sporadiche candele e innaffiata da vino e liquori, è qui. I protagonisti di questa oscura vicenda, Maigret compreso, sono tutti seduti all'imponente tavolo. D'altronde, per ammissione dello stesso Maurice di Saint-Fiacre, "prima della mezzanotte, l'assassino di mia madre sarà morto!".
Al centro del tavolo, a una distanza equanime dai convitati, una pistola che armerà il destino.
Nella sala di sopra, dove non c'è nessuno a vegliare la salma della defunta, a mezzanotte si ode uno sparo: la rivelazione, indiretta e contorta, del vero colpevole per la morte della contessa.
Uno stanco Maigret che forse per la prima volta si è limitato a osservare gli eventi senza indirizzarli in maniera decisiva verso un approdo o l'altro, ha il tempo comunque di intervenire: a seconda della verità che sarebbe trapelata, infatti, ha capito che la versione del piccolo Ernst, il chierichetto nelle vesti del quale era stato nascosto il messale incriminato, sarebbe cambiata. Manco a dirlo, per far ricadere la colpa sull'uno o sull'altro.
Nulla è quello che sembra. O davvero molto poco.
Ancora una volta, un Simenon magistrale.
«Ma ecco un probabile testimone. Cos'ha visto, lei?»
«Io? Niente. Appena sono iniziate le prime schermaglie, mi sono andato a cambiare d'abito»
«Cioè? Non capisco»
«Mi sono vestito bene per essere intervistato da lei. Io sono condannato a mettermi in tiro. Così come a farmi la barba. Sempre».
«O bella, e perchè?»
«Perchè sono nero. Se fossi stato trasandato, altro che intervista! Lei avrebbe evitato l'immigrato che giocoforza è in me. O mi avrebbe rivestito del cono d'ombra dell'irrilevanza»
Eccolo qui, l'avv. Vincenzo Malinconico, che nelle sue peregrinazioni tra lo studio ikea di 18 metri quadri e il tribunale delle sempiterne "coreografie del diritto", prova a mettersi a fuoco. E magari ci riuscirebbe pure, se non fosse per la professione inflazionata peggio che l'umarell al cantiere, o per l'amore che non c'è, e quindi provi a fartene una ragione, ma che improvvisamente ritorna e ti imballa il sistema. E sì perchè tra l'assenza e il ritorno del despota del cuore, c'è quell'Alessandra Persiano, star incontrastrata nei palazzi di giustizia, che sembra aspettare proprio un tipo scombinato come il Malinconico.
Ci sarà qualcosa tra i due e, soprattutto, durerà?
Altro giro, altra corsa: il Borsone, con l'edificante ruolo di smembratore di corpi con conseguente seppellitura di arti (distanziati in maniera tale che un piede se ne stia abbastanza lontano da un braccio per evitare collegamenti), si perde una mano. Quest'ultima, guardacaso, viene rinvenuta nel suo giardino: il cane gli ha fatto il servizio. Al Borsone, ovvio.
Malinconico lo viene ben presto a sapere: sarà lui il principe del foro che dovrà difendere il macellaio della camorra. Tutto bene, a parte il fatto che lui, il codice penale, lo deve andare a riesumare da un metro di polvere e più dei brogliacci dell'università.
Il Borsone viene brillantemente scarcerato e, come corollario a questo trionfo, il Nostro si vede assegnato l'efficentissimo Tricarico col ruolo di guardiaspalle, accompagnatore e, all'occorrenza, codificatore del linguaggio della mala: un camorrista "bravo guaglione", il Tricarico, che risolve l'annosa pratica volpino scassacazzi confinato nella stanza adiacente a quella dello studio legale: modi spiccioli, ma con un grado di efficienza altissimo.
E se il segreto di una vita quieta fosse proprio quello di agire unicamente per raggiungere il risultato, a prescindere quindi dalle metodologie adoperate e dai deprecabili effetti collaterali?
Tra elucubrazioni varie, alzate di ingegno, miserie che costellano la professione forense, figli "liquidi" che sembrano si mettano di buzzo buono a creare grattacapi; e ancora, tra strizzacervelli che non hanno le idee chiare (!), tipi gentili che scollinano nella follia, l'Eugenio Finardi che faceva il rockettaro quando gli altri cantautori rifilavano pipponi di testo (molto) e musica (poca), all'avvocato Vincenzo Malinconico non resta, per sopravvivere, che trincerarsi dietro il "non avevo capito niente" del titolo.
Vi sembra poco? A me, e ai tanti lettori del sagace De Silva, no. Decisamente no.
Aspetto le mie pizze.
La ragazza alla cassa scudiscia ordinazioni e incamera soldi.
Alle sue spalle, occhi tristi di un'altra ragazza impilano cartoni.
Entra una comitiva di inglesi.
Le dita sui cartoni fremono di riscatto.
La ragazza della cassa è costretta a rinculare.
Chi era alle spalle ora è di fronte.
I desideri stranieri vengono codificati.
La comitiva inglese va via.
La ripristinata retrovia culla una consapevolezza nuova
In un Paese dalla connotazione indefinita, ma che ben potrebbe essere l'Italia, si susseguono una serie di omicidi illustri, tutti riguardanti giudici.
Le indagini vengono affidate all'ispettore Rogas, "il più acuto investigatore di cui disponesse la Polizia, secondo i giornali; il più fortunato, a giudizio dei colleghi".
Rogas, il "quasi letterato" incline alla speculazione filosofica, valido conoscitore della psiche umana che gli consente, tra l'altro, di averne "uno (di ristoranti, ndr) per ogni giorno della settimana, sette dunque che lo consideravano buon cliente ma non affidato e stabilizzato al punto di poterlo trattar male", mette insieme i vari tasselli dell'indagine.
L'ispettore infatti, mano a mano che le toghe cadono, si fa sempre più persuaso che l'omicida si annidi tra le pieghe di qualche errore giudiziario che inevitabilmente, prima o poi, viene a contaminare l'operato dei giudici.
E la ricerca dà ben presto i suoi frutti: un farmacista, tal Cres, accusato dalla moglie di tentato avvelenamento sventato, all'ultimo secondo, dalla provvidenziale ingordigia del gatto domestico.
Dopo la condanna a cinque anni, l'accusatrice scompare nel nulla. E quando Rogas otterrà il mandato per perquisire la casa del farmacista nel frattempo anche lui datosi alla macchia, non troverà nessuna foto che possa cristallizzare un brandello di biografia.
Sta di fatto che non appena l'ispettore scopre una valida pista da seguire, gli viene affiancato un collega della sezione politica che si orienta decisamente, con il placet delle istituzioni, verso uno dei tanti "gruppuscoli" sovversivi infestanti la città. La loro firma starà dietro il rosario di morti eccellenti.
Rogas però ha un'altra spiegazione e si orienta verso altri colpevoli (diretti e indiretti): racconta a Cusan, amico e scrittore impegnato, lo scenario fosco, incrostrato da collusioni a tutti i livelli, che si sta profilando all'orizzonte. L'unica è parlarne con Amar, il capo del partito rivoluzionario, che almeno ha il crisma della persona onesta.
Quando però il vice di Amar che nel frattempo gli è subentrato, incontra Cusan per sentire cosa si è detto con Rogas e soprattutto per raccontargli la sua, di versione dei fatti, allo scrittore non resta che farsi convincere e abbracciare una verità (di comodo) tanto più appagante quanto più stridente con le risultanze in suo possesso.
"La ragion di Stato, signor Cusan: c'è ancora come ai tempi di Richelieu".
Per vigliaccheria, certo.
Per immaturità, anche.
Ma pure...
per evitare di ripetere fino alla nausea quello che non si vuol sentire o capire;
perchè restare un secondo in più è mancanza di rispetto verso sè stessi;
perchè attardarsi sarebbe una punizione troppo severa per chi ci è di fronte.
La fuga: ombra nella gola riarsa della calura.
Di primo mattino, sulla pilaja, un gabbiano mette in scena una danza stramma. E subito dopo, firriando su se stesso, muore.
Saranno le vicchiaglie che lo rendono più sensibile, ma Montalbano è insieme scantato e meravigliato da questo spettacolo.
Nei tempi morti, continua ad attaccare turilla con la so zita, con la quale le incomprensioni hanno raggiunto il punto di non ritorno.
Ma c'è una novità: Fazio non s'arricampa al commissariato doppo 'na spedizioni in solitaria ai magazzini del porto. Gli sarà venuto il firticchio di mettersi in proprio? Sta di fatto che di lui non si hanno più tracce da alcuni giorni.
Montalbano, col cuore stritto nel più nivuro dei presentimenti, trova cadaveri catafottuti in sbalanchi che parono or ora assumere le sembianze del suo uomo più fidato.
Fortuna vuole che Fazio l'arritrovano in una galleria dismessa, firuto e 'ntordonuto a tal punto che spara addirittura alla machina dei so colleghi.
Quando la memoria dell'agente ha smesso di fagliare, Salvo viene a sapere che Fazio si sarebbe dovuto incontrare con un so' amico che s'è rifatto vivo (Manzella) dopo molto tempo in grado, a quanto pare, di rivelargli scenari tinti assà.
Dell'amico, però, nemmeno l'ummira. In compenso ci sono pischerecci che tardano a scarricare ai magazzini generali e cannocchiali puntati sul porto che vedono troppo. Senza contare il tentativo da parte di qualche fituso, non riuscito per piccca e nenti, di togliersi dai cabasisi una volta e per sempre proprio il nostro commissario. E per farlo, il mafioso di turno non esita a tirare dentro le filame del complotto pure una povera picciotta, Angela.
Alla fine della storia, dopo un sopralluogo nella casa della mattanza, Montalbano ricostruisce il (macabro) circo equestre che ha visto vittima proprio Manzella: il povirazzo, sodomizzato e torturato peggio che l'inquisizione, ha firriato torno torno alla seggia, firuto, sbeffeggiato e dissanguato. Priciso 'ntifico al gabbiano della pilaja.
Non resta che il saltafosso: Montalbano sa che per fottere la famiglia Sinagra occorre lavorare di fino. E che l'unico modo per portare dalla sua parte la donna del mafioso è prospettarle l'idea dell'esistenza di un'altra "fimmina" che proprio fimmina, almeno per ciò che attiene alle vrigogne, non è.
Assittato supra alla verandina, in compagnia di tanticchia di malinconia per il tempo malitto delle sdillusioni (" 'na botta alla vucca dello stomaco"), il commisario Salvo Montalbano cerca di acconsolarsi con "un piatto, enormi, di caponatina".