Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”
Un’esistenza, infine, irriverente alla stregua dell’ingegnere regimental della IBM che si fa rivoluzionare la vita dai filosofi presocratici.
La vita di De Crescenzo ti esplode tra le mani come un carillon di musica e magia abbandonato tra i titoli di Borsa di Piazza Affari. E tra una piroetta della ballerina che da cinquant’anni si ostina a seguire quelle scarne, acute note metalliche e lo sguardo ammirato del rampante finanziere allevato a play station e virtualità, eccoti squadernare davanti agli occhi la serie di personaggi, a tal punto strabilianti da non poter essere altro che veri, della vita dello scrittore: la mamma, che dopo aver criticato un attimo prima l’esibizione in RAI di Ella Fitzgerald (“secondo me, i negri dovrebbero cantare per i negri e i bianchi per i bianchi”), risponde all’intervistatrice telefonica che le chiede un giudizio sull’artista che questa cantante le piace moltissimo perché “se io dicevo che non mi piaceva, quella poi la RAI la licenziava e questo non sta bene: chella è già accussì nera!”; il padre, anticonsumista sfegatato, che impone l’acquisto delle scarpe solo nel negozio di Stefanino Buontempo che, poiché quest’ultimo “aveva mollato, praticamente sull’altare” una loro parente, adesso è obbligato a praticare lo sconto del 30%, “vita natural durante, su tutti gli articoli del negozio”; e poi, ancora, come non citare zio Luigi, ‘o pallista, che giura e spergiura che Hitler non è tedesco, ma nato a Predappio come Mussolini (“…ma può essere che non t’accorgi che è un travestito! Hai visto i capelli che tiene? (…) E il baffetto posticcio dove lo mettiamo? Andiamo: (…) quello è na macchietta, a me me pare Charlot!”)?!
Ma la vita di Luciano De Crescenzo è ricca anche di aneddoti legati al sesso come il racconto della disarmante prima volta, nell’agognato bordello vagheggiato fin dall’adolescenza, in cui “le residue speranze di una già improbabile erezione svanirono di colpo” non appena la puttana di turno, “dopo un rapido sopralluogo per vedere se avessi piattole o altri insetti”, prese il flit “e mi stantuffò tra le gambe una fredda nuvola di disinfettante”; così come di frammenti di vita relativi al primo amore, anzi, ai “primi quattro amori” (da bambino, da adolescente, da giovanotto, da adulto) “e non quattro amori diversi (…), perché credo di essermi innamorato sempre della stessa persona”.
Sullo sfondo, poi, campeggiano, reclamando a gran voce cittadinanza in questo scritto, il paragrafo intitolato “il ventre della vacca” in cui anche trovare un paracadute, negli anni della Grande Guerra, può essere una fortuna (“a Napoli, la signora Santommaso, con la stoffa di un paracadute si è fatta ventidue camicie di seta”) e quello de “la fame” dove, sempre durante il conflitto bellico, ascoltando estasiati uno dei racconti mirabolanti di Zio Luigi, Luciano De Crescenzo e il cugino staccano i parati della cucina perché le carte da parati “si attaccano con la colla”; “e la colla come si fa?” “Con la farina.” E se Totonno ‘o Pizzaiuolo, come ha appena raccontato zio Luigi, impastò la polvere con l’acqua fino a ricavarne delle pizzette niente male, perché non possono provarci anche loro, Luciano e il cugino, a fare una cosa simile?
La vita dell’inclito scrittore prosegue con l’esperienza lavorativa in IBM e con lo scetticismo dei napoletani verso il futuro avveniristico promesso dalle macchine:
"Ma ti pare che a Napoli, con tutti i disoccupati che ci sono, quelli vanno a comprare le macchine tue? Secondo me, queste società sai che faranno? Chiameranno i disoccupati e gli daranno una moltiplicazione a testa, e quelli in quattro e quattro otto ti fanno tutti i conti. Secondo me era meglio se t’impizzavi nel Banco di Napoli!"
Dopo un breve accenno all’esperienza cinematografica, l’attenzione di De Crescenzo si sposta, non senza qualche timore per la complessità dell’argomento, sul “Dubbio positivo” che lo porta, da lì a poco, ad interrogarsi sull’eterna ed annosa quaestio del fine vita. E, pur trovandosi necessariamente a suo agio perché approdato alla “preparazione alla morte” che i suoi amati filosofi praticavano fin dall’età della comprensione, l’arguto scrittore non può evitare di suscitare nel lettore un moto di disarmante dolcezza quando si richiama al finale del film “I clown” di Federico Fellini.
Tra le pieghe del bianco e nero di siffatta pellicola il pagliaccio protagonista, all’affermazione del direttore del circo circa la morte del compagno di numero Fru-Fru che gli deve ancora restituire dieci salsicce dall’anno scorso, obietta che “uno non può mica sparire così: da qualche parte deve pur stare.” E convinto di ciò, il pagliaccio prova a suonare la canzone del proprio numero: “ebbene, non appena attacco una nota, ecco che lui mi appare, come per incanto, e mi risponde suonando”.
Una vita in musica, anche quella di De Crescenzo, che pur nei limiti di questo libro (troppo trascurata, ad esempio, la svolta che l’ha portato ad abbandonare la professione di ingegnere per la fortunata carriera di scrittore), è stata capace di farci sorridere con ironica, intelligente e colta partecipazione.
E speriamo, infine, che la preziosa ballerina del carillon di cui sopra ce la faccia ancora una volta (è da troppo tempo ormai che, vuoi per le sue condizioni di salute, vuoi per un probabile prosciugamento della vena artistica, De Crescenzo non riesce a regalarci nuovi spunti letterari) a deliziarci con le sue poetiche e pregne di umanità piroette d’amore.
In questi tempi tristi, ne avvertiamo davvero il bisogno, come ugualmente sentiamo la necessità di aforismi del calibro di questo contenuto proprio in “Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”: “La pubblicità sarà il veleno preparato dall’omologazione e la televisione il bicchiere dentro il quale ce lo fanno bere“.
Ad Maiora, Lucia’!